L’affaire Pavlovsk spiegato ad un uomo di lettere

La creatività, intesa come parto ex-novo di un’idea mai concepita in precedenza, indica la cifra stilistica di solito attribuita ai geni. La capacità di trasformare ingredienti già inventati dall’altrui ingegno offrendone una dimensione nuova è in realtà un merito altrettanto pregevole, se parimenti in grado di mutare il cammino delle cose. Lo scopritore della ruota ha messo in strada l’umanità, ma quanti dopo di lui ne hanno trasformato gli usi meriterebbero altrettanta gloria per la loro abilità di vedere, intuire e ribaltare un bisogno in una risposta. La condizione necessaria perchè questo avvenga è l’esposizione, l’accesso ad una varietà maggiore possibile di materiali da trasformare, plasmare e rivoluzionare, se necessario. Biblioteche e musei assolvono la funzione di preservare dall’oblio idee e creazioni dell’estro non solo per garantirne la fruizione, ma per consentire l’evoluzione dei concetti che quell’estro voleva veicolare. Un percorso analogo vale per la scienza, che nella sua versione più classica è un calderone di idee open-source messe a disposizione di chi vuole proseguire, correggere, allargare o fare inversioni “ad U” lungo sentieri tracciati da altri.

Alla fine dell’ottocento la musica classica europea viveva una certa stagnazione, bloccata da formalismi mal digeriti da molti compositori affamati di innovazione ed in cerca dell’ispirazione risolutiva. Claude Debussy era uno di loro e la sua tensione verso nuovi slanci faticava a trovare un sentiero buono. Durante l’esposizione mondiale di Parigi (sì, quella di Eiffel) la folgorazione avvenne incrociando sul suo cammino un gamelan, un’orchestra percussiva di musica tradizionale indonesiana dotata di uno stile compositivo sconosciuto in Europa ma dominante negli usi giavanesi, basato su scale eptatoniche, sulla ciclicità, sulla diversità armonica. Il gamelan, con i suoi xilofoni, vibrafoni e gong era il cardine di una tradizione musicale millenaria a cui i composiori del Vecchio Continente non erano mai stati esposti o almeno non lo erano stati al momento giusto, quando le condizioni di humus culturale e di temperatura sociale erano le più opportune.  Nonostante un retroterra di secoli di musica europea quel modo di comporre non era sui pentagrammi del Vecchio Continente.

Questo incontro con una traccia di sapere antico aprì invece a Debussy gli occhi sulla strada che intendeva intraprendere per un futuro che avrebbe trasformato radicalmente la musica contemporanea del novecento, portandolo ad usare tutti i toni della scala, ad introdurre una diversa ciclicità nelle composizioni ed a rompere con l’arma della complessità lo schema sclerotizzato e finalistico che i musicologi chiamano A-B-A. Di fronte alla tradizione ingessata degli europei, la tradizione indonesiana offriva vie di fuga e di innovazione impreviste, se messa sotto al naso di chi era ricettivo a coglierle.

Questo punto di svolta, tuttavia, è stato possibile perchè Debussy ha avuto modo di inciampare su questi saperi compositivi mentre erano ancora assai vitali: se le composizioni per gamelan fossero andate perdute prima o se le orchestre indonesiane fossero state spazzate vie da una qualche sovrapposizione culturale, probabilmente l’occasione sarebbe stata persa. Non potendo -per molti versi fortunatamente- obbligare le culture alla fissità eterna, l’uomo ovvia alla scomparsa ed alle dinamiche del rimpasto continuo dei saperi con l’archiviazione. Nel caso specifico, raccogliendo ed archiviando in forma cartacea o in registrazioni di vario tipo le conoscenze tradizionali in campo musicale, folklorico (e terapeutico, perchè no) per consentire che questa varietà di creazioni possa essere prima o poi esposta a qualche genio, che la usi per fare un passo in avanti. O anche di qualche onesto pedalatore della ricerca e della produzione.

Analogamente ai saperi più canonicamente culturali come quelli che tanto piacquero a Debussy, l’uomo produce conoscenze ed accumula invenzioni e scoperte anche in campo agronomico ed in generale nella sua relazione con le piante commestibili. Individua piante alimentari, le seleziona e le trasforma per migliorarne il gusto, la resistenza, la conservabilità, la vendibilità, le proprietà nutrizionali, l’adattamento a climi ed a condizioni ambientali particolari. Reinventa e plasma le specie vegetali -non senza il loro consenso, in termini evolutivi ci guadagnano anche loro- ed anche se non sempre queste operazioni portano a successi commerciali planetari,  rappresentano il contributo del genere Homo all’incremento della diversità biologica del pianeta e costituiscono il suo capitale immobilizzato per ogni eventualità. Mentre ogni forma di sapere scritto è conservato ed archiviato nelle grandi biblioteche mondiali – la British Library, la Bibliothèque Nationale de France ad esempio- il sapere delle piante scoperte, raccolte o selezionate dall’uomo attraverso incroci ed ibridazioni può essere conservato in due modi. Se le piante sono fertili, è possibile creare strutture come lo Svalbard Global Seed Vault, mentre se le specie non sono fertili è necessario propagarle vegetativamente (per talea ad esempio) ed occorre spazio: non bastano i freezer. Se le banche del germoplasma basate su semi sono paragonabili ad una biblioteca, ovvero possono essere traslocate in caso di necessità, quelle basate su alberi, arbusti e piante in vita assomigliano più ad un’area archeologica: il suo spostamento, per quanto possibile, è un’operazione dai costi enormi fattibile solo in caso di grandi, immense opere. La più grande raccolta di piante alimentari di questo tipo (alberi da frutto in particolare) si trova in Russia, nella località di Pavlovsk vicino a San Pietroburgo. E’ intitolata a Nikolaj Ivanovič Vavilov (uno che avrebbe già pagato abbastanza in vita) e rischia seriamente di essere rasa al suolo, azzerando di fatto ogni possibilità di sfruttare il sapere che ospita, raccolto e conservato per dare ai futuri Debussy dell’agronomia ed ai comuni orchestrali dell’alimentazione una chance per creare qualcosa di utile per l’umanità.

Spiegare la valenza della questione Pavlovsk ai cultori delle scienze è -o dovrebbe essere- una cosa elementare anche per semplice l’empatia verso i dipendenti della Stazione Vavilov che morirono di fame durante l’assedio di Leningrado pur di non consumare semi e tuberi che avevano in custoria. Difatti, in queste settimane uomini e donne di scienza e tecnologia hanno raccolto senza bisogno di troppe spiegazioni e rilaciato a gran voce il grido di dolore del Global Crop Diversity Trust, suonando con forza il tam tam degli appelli e delle petizioni da inviare a chi potrebbe muoversi per evitare la chiusura della più grande banca genetica di frutta d’Europa e forse del mondo. Una chiusura che a causa della particolarità della struttura e dei suoi ospiti vegetali non permetterebbe recupero alcuno e che avverrebbe per far spazio alla becera opera di qualche palazzinaro. Si sono mossi i grandi network, i giornali, i blog scandalistico-caciaroni, le riviste, le radio, i botanici, gli agronomi, gli scienziati tutti e persino il mondo economico ha prestato attenzione alla vicenda. Il Sole 24 ore, a firma Lara Ricci, ha pubblicato infatti uno degli articoli a mio avviso più completi e chiari per capire cosa capita dalle parti di San Pietroburgo. Visto lo stato della vicenda viene da chedersi se l’attenzione di agronomi, botanici, fisici, chimici, divulgatori e cultori di materie scientifiche è sufficiente a bloccare le ruspe ed il loro sciagurato cigolare.