Chiedi ai conquistadores

Questo lungo post è parte della seconda edizione del Carnevale della Biodiversità, ospitato su Leucophaea. Potrebbe diventare una serie. Molte immagini sono tratte dagli articoli in bibliografia, altre da Inmagine.

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Ho sempre avuto un feeling per le piante, ricambiato. Ci capiamo, probabilmente perchè sono meno squallide degli umani e sono più spesso disponibili a condividere le loro soluzioni evolutive ai problemi dell’esistenza senza spocchia, remore e vincoli brevettuali. Certo, occorre sintonizzarsi sulle loro lunghezze d’onda, in qualche modo. Per un certo periodo ho approfittato di questa empatia per ricoprire il ruolo di executive search presso una di quelle futuristiche startup che scandagliano, covano e rivendono idee nuove in posti strani, non ancora dragati dall’aspirapolvere dei neuroni e dal tritatutto delle conoscenze. La mia rete di contatti nel Regno Vegetale mi ha salvato dal pavimento del circo, anche in quella occasione. Il battesimo col capo del resto era stato illuminante circa le mie mansioni e le loro aspettative. “Lei ci deve trovare qualcuno con soluzioni fresche, soluzioni innovative, roba che la concorrenza non ha ancora trovato. Ha capito? I nostri clienti sono aziende importanti, abbia la premura di verificare che si tratti sempre di roba affidabile, magari già testata, ma nascosta nelle pieghe di quello che appare ovvio agli occhi dei più. Roba borderline, da trasferire e rivendere cambiando da un contesto d’applicazione all’altro. Cerchi dove le pare, ma niente inventori della domenica. Meglio roba affinata nel tempo, testata, chiaro? Non possiamo giocarci un cliente con un Archimede fuori di testa che si crede il creatore. Faccia tutte le acrobazie che vuole per portare a casa il risultato, ma sappia che se va lungo sul trapezio non le paghiamo l’ortopedico “. Il primo incarico era subito una tripla piroetta da Circo Togni: il cliente voleva conquistare lo spazio cosmico, perchè gli era venuta la fregola con gli esopianeti “abitabili” scoperti da Keplero e cercava sistemi efficaci per diffondere la vita su questi sassi apparentemente vivibili. Corpi celesti che come appartamenti derelitti e scalcinati nella periferia meno servita dell’universo aspettavano solo una bella imbiancata d’ossigeno per poter essere venduti al miglior offerente.

Cosi’, come l’astronauta sul fregio della cattedrale di Salamanca, sono finito a fare il cacciatore di teste per conto di un’agenzia spaziale girando per prati, boschi, orti e giardini, facendo colloqui di lavoro ad alberi, piante, alghe, funghi, muschi per capire chi potevo mettere sotto contratto senza prendere un calcio orbitale nel didietro. Le capacità di invadere un territorio, di adattarsi a climi differenti, di inserirsi in comunità già abitate da concorrenti sono tutti elementi che ruotano, almeno in parte, con la capacità di disperdere semi, spore o polline, per cui il piano era presto fatto: scucire idee a chi il lavoro di conquista di un pianeta desolato lo aveva già fatto, competendo sul campo per le risorse e per lo spazio vitale. Gente che il lavoro sporco della frontiera lo aveva fatto bene, conquistando terreno vergine metro su metro, sfrattando chi era arrivato prima e portando per giunta a casa il certificato di abitabilità per altri inquilini ossigenando l’atmosfera.
Il primo passo fu quello di preparare un annuncio, che suonava cosi:

In previsione di future espansioni in nuovi mercati, affermata agenzia aerospaziale invita ricercatori applicati a sottoporre idee e strumenti da indirizzare alla creazione di sistemi propulsivi, vettori, generatori di habitat ed altri apparecchi innovativi per la dispersione di forme viventi atte a colonizzare pianeti extraterrestri. La call for ideas prevede l’inserimento delle idee più promettenti in un programma di ampio respiro, in grado di garantire assistenza tecnologica, giuridica e finanziaria nella fase di un eventuale sviluppo industriale. Sono richieste esperienza nel settore, un pregresso di applicazioni reali dimostrabili in campo ed un’elevata propensione alla risoluzione dinamica di problemi in autonomia, con approcci innovativi e creativi. Le risorse selezionate saranno coinvolte nelle riunioni di brainstorming volte al miglioramento delle iniziative attualmente in corso e all’eventuale ideazione di nuovi piani di conquista dello spazio. Non si esclude il coinvolgimento diretto nelle missioni spaziali dei candidati più performanti.

Il primo a farsi vivo fu un muschio, via email. Arzillo, semplice, ma sicuro del fatto suo e schietto come si confà ad un colono di vecchio stampo.

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Egregio Dott. Meristemi,
sono il legale rappresentante del genere Sphagnum ed assieme ai miei circa 300 colleghi da qualche milione di anni mi dedico alla colonizzazione di questo pianeta. Diciamo che siamo tra i leader del settore e molte delle soluzioni che utilizziamo, più figlie del caso che non della nostra inventiva personale sia ben chiaro, i suoi simili le conoscono già. Penso che comunque possa farle comodo un riassunto informale in vece del tradizionale curriculum. Non siamo una genìa di spilungoni, al massimo arriviamo a quattro-cinque centimetri da terra e per questo da sempre abbiamo dovuto sviluppare sistemi per disperdere il seme, se mi perdona il riferimento poco educato e l’errore botanico. Siamo gente legata alle tradizioni, nel senso che non abbiamo ritenuto opportuno evolvere in modo parossistico le nostre capacità riproduttive ed i nostri sistemi di relazione col prossimo, al punto che alcuni rivali più giovani ci trovano arcaici e sorpassati. Siamo gente chiusa e poco avvezza alle novità, alla socializzazione e ci piace una certa solitudine, come del resto è opportuno per chi vuole esplorare. Del resto però, se i numeri non sono un’opinione, la nostra scelta tradizionale resta vincente: deteniamo l’1% del suolo terrestre, ovvero grazie ai nostri sistemi “antiquati” occupiamo più di un milione e mezzo di chilometri quadrati di terra calpestabile. Come quota di mercato non è male e molti avversari più “evoluti” sono insediati in porzioni di questo pianeta ben più insignificanti e vi aiutano molto meno di noi a rendere respirabile l’atmosfera. Mi perdoni se divago parlando male della concorrenza, ma saprà meglio di me che la competizione è l’anima del nostro lavoro per conto dell’evoluzione ed è difficile scordarsene quanto c’è di mezzo una conquista…

ResearchBlogging.orgA noi muschi, per necessità e per scelta, piace fare le cose senza troppi aiuti esterni, cosa che spero sia apprezzata in questa sede. Quando si parte per una conquista dell’ignoto è meglio prevedere l’autonomia totale anziché sperare di trovare alleati disposti a collaborare o mercenari disposti a lavorare per te. Insetti, altri animali… chissà che si troverà su quei pianeti in quelle galassie remote, se mai ci andremo. Da bravi coloni di una volta abbiamo quindi scelto la strada dell’autarchia e per la dispersione delle nostre spore ci siamo affidati alle correnti d’aria, che rappresentano una fonte di energia economica e disponibile ovunque vi sia possibilità di vita. Quando si sta ai piani più bassi sfruttare l’aria per colonizzare lo spazio circostante può essere limitante: non circolano particolari correnti rasoterra e l’accesso a questa energia è arduo, si tratta di roba per gli inquilini di prima classe. Se ha mai provato a far volare un aquilone o a lanciare un aeroplanino di carta lo saprà bene: quando non vengono sospinti verso l’alto la portanza non è sufficiente a farli veleggiare e cadono lì, ai suoi piedi. Lo stesso vale per un palloncino pieno d’aria (non di elio), il cui tragitto è vincolato all’altezza a cui viene sganciato: se lo lascio andare da pochi metri o dalla cima di un grattacielo l’area che può coprire cambia parecchio. E le nostre spore partivano dal basso della nostra nanitudine, purtroppo, cosa che ci permetteva a malapena di conquistare l’orto di casa, con l’aggiunta di avere poi i figli a carico per la spartizione delle risorse d’acqua, luce ed alimenti. Ma sto divagando, o forse no. Mi perdoni, sono su questo pianeta da qualche milione di anni e l’età forse si fa sentire. Il dilemma dei miei antenati che volevano conquistare la Terra era quindi presto detto: le loro spore rilasciate all’altezza del suolo ricadevano nei dintorni e la possibilità di colonizzare aree a media o grande distanza erano poche. Poi alcuni avi hanno -come sempre rigorosamente a tentoni, senza sapere quel che facevano in realtà- sviluppato la soluzione esplosivo-turbinante, dotando la progenie di una spingarda d’alta ingegneria balistica e non solo. Per farsi un’idea, le allego qualche filmino girato in famiglia.

La nostra soluzione attualmente in opera prevede il lancio delle spore ad un’altezza sufficiente ad intercettare le correnti turbolente d’aria ascensionale, per deboli che siano, e di sfruttare queste ultime per disperdere le spore, leggerissime, a distanze per noi siderali. Tenga presente, sempre perchè i numeri non sono opinioni, che possiamo garantire una copertura di alcune decine di chilometri, che per noi mignon senza gambe non è niente male, glielo assicuro. Il meccanismo è semplice e non è un segreto per voi umani, anche se ci avete messo parecchio a capirlo, forse per la vostra ossessione presbite a guardare lontano, altri pianeti, nuovi mondi, mentre manco sapete come far funzionare questo. Mi perdoni nuovamente per la senilità evolutiva, ma noi Briofite non siamo ancora andate alle porte di Tannhäuser eppure in tutti questi millenni abbiamo visto cose che voi umani… Dicevo, tornando a noi, che le capsule in cui accumuliamo le nostre spore hanno la forma di una sfera chiusa da un coperchio nella parte superiore. Tuttavia, a seguito dell’esposizione al calore solare l’acqua contenuta nelle cellule epidermiche viene eliminata per evaporazione attraverso camini da essiccatoio detti pseudostomi (un ulteriore sistema che altri ci hanno copiato, usandolo per la traspirazione delle foglie, ma il brevetto evolutivo era nostro, si sappia) sino ad assumere la forma di un cilindro. A questa contrazione corrisponde un aumento della tensione delle pareti, fino al punto in cui il coperchio/opercolo salta come una capsula delle sorprese dell’uovo Kinder, sparando le spore verso l’alto a circa 80 km orari.

A seguito dell’esplosione le spore sono proiettate in verticale con una dinamica precisa, che consente di massimizzare l’energia cinetica e che prevede la formazione di vortici tali da permettere di superare i limiti imposti dalle leggi fisiche della balistica. Questa combinazione ci permette in alcuni casi di superare i 20 centimetri di gittata ed anche se alcuni hanno lo decritto come una pistola ad aria compressa il meccanismo è più complicato, perchè i vortici formano una nuvola a fungo atomico che estende di parecchio la gittata effettiva e perchè l’energia non deriva da gas compressi nella capsula, ma dallo “strizzamento” delle pareti dovuto all’essiccamento solare che fa crescere la pressione interna distorcendo il cilindro.

Quando troverete un pianeta con un’atmosfera decente ed un kit minimo di sopravvivenza, si ricordi di queste soluzioni e ci chiami. Bastano acqua, luce ed un sole abbastanza caldo. Abbiamo già fatto quello che vi serve ossigenando a dovere questo pianeta, possiamo applicarci anche altrove senza paura della eventuale concorrenza locale.

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Come inizio era incoraggiante ed almeno si intravedeva all’orizzonte una proposta da mettere sul tavolo del cliente, per placarne le brame di conquista extraterrestre. Che non sarei arrivato a mani vuote fu confermato nelle settimane successive, quando la scrivania fu inondata di curriculum e proposte e l’agenda si riempì rapidamente di appuntamenti con i più disparati soci del club dei conquistadores vegetali, tutti accomunati da una accanita passione per sistemi esplosivi, elastici e meccanici applicati all’occupazione di suolo fertile, sottratto ai concorrenti. Scoprii ad esempio che stesso problema dei muschi lo avevano risolto in un modo diverso anche altri candidati più raffinati, piante che si affidano sia al vento che agli insetti per disperdere polline e non spore. Qui non c’erano spingarde, ma un trabucco e stando ai curriculum visionati il pistolero più veloce era un certo Cornus canadensis, un arbusto con una catapulta nel fiore, capace di sparare il proprio polline in meno di mezzo millisecondo. Un terzo del tempo impiegato da un proiettile ad uscire dalla canna di un fucile, con un’accelerazione di 2400g, tre volte più di quella con cui lo space Shuttle decolla da terra. Se nel team del cliente si sono degli ingegneri sono a posto, pensavo leggendo quella scheda tecnica che descriveva un’antera bloccata all’interno della corolla e legata da un nastrino di tessuto ad un filamento troppo cresciuto, costretto a piegarsi ad arco. Mano a mano che il filamento del Cornus cresce esso accumula energia potenziale, che viene scatenata a maturazione a seguito di piccoli urti, come quelli causati da insetti che si poggiano sul fiore o da lievi colpi di vento. Se l’insetto c’è, viene inondato di granuli e se non c’è i granuli pollinici hanno una bella spinta a molla per decollare e volare lontano, grazie ad una brillante combinazione di fisica e morfologia fiorale.

Anche se i sistemi per il lancio avevano forme diverse, alcuni elementi comuni trasparivano dallo studio del materiale che si accumulava sulla scrivania, soprattutto per quando riguardava il lancio dei semi. Quasi tutti i processi presentati dai candidati descrivevano un meccanismo di base in comune, legato alla regolazione del turgore cellulare (la quantità d’acqua presente nelle cellule) che viene portata verso un limite massimo (aumento di acqua) o minimo (disidratazione) in corrispondenza di punti precisi del frutto, che è sempre deiscente e quasi sempre una capsula, una siliqua o un legume. Seccandosi, i tessuti del frutto diventano rigidi e proni ad esplodere in corrispondenza di linee di tensione, costruite attraverso l’alternanza meccanica di tessuti diversi e giocando sulla fragilità programmata delle zone di saldatura, come quelle presenti tra le foglie carpellari che formano l’ovario prima ed il frutto deiscente poi. Il tutto è sempre ottenuto combinando la rigidità delle pareti esterne, disidratate per effetto della traspirazione, e la pressione interna ottenuta sviluppando accumulando acqua nei tessuti più interni, creando aree soft pieghevoli a base di mucillagini ed aree rigide lignificate, in cui le fibre hanno spesso due orientamenti perpendicolari che amplificano l’elasticità. Quando la tensione supera un valore prefissato, il meccanismo scatta innescando la catapulta o la frusta, che trasferisce l’energia potenziale accumulata durante la fase statica in energia cinetica impressa ai semi. Ovviamente questi ultimi hanno caratteristiche di peso e di forma adatte alla balistica: sono infatti quasi sempre legggeri ma non troppo, perfettamente lisci (minore resistenza all’aria) e sferoidali. In Crossandra infundibuliformis il processo è inverso: prima il frutto si secca e poi, appena annusa un poco di umidità esplode, grazie alla presenza di due strati di cellule sull’epicarpo di cui uno altamente igroscopico rispetto all’altro. Quasi sempre il tessuto igroscopico è però nella fodera interna del frutto.

Non arrivavano curriculum solo da candidati esotici, ma anche da piante nate e cresciute sotto casa e comunque tutti andavano controllati con cura, perchè non sempre le soluzioni proposte mi avrebbero fatto fare bella figura. Cardamine parviflora la trovate nei prati incolti e sul ciglio della strada, è una Brassicacea dai fiorellini bianchi e dai frutti a siliqua, eretti, che una volta essiccati esplodono come fruste, nel tentativo di mandare lontano la progenie. Per quanto la lettera di presentazione del suo sistema di dispersione fosse accurata e propositiva, evidenziando la performance di 5 millisecondi con cui il processo veniva portato a termine, non potevo non cestinare la candidatura: sapevo che il sistema era inefficiente e che quasi l’80% dei semi cade ai piedi della rampa di lancio, una percentuale sufficiente per avere un vantaggio su altre Brassicacee che competono con il genere Cardamine per spazio e risorse e non possiedono questo ritrovato balistico, ma non abbastanza per guadagnarsi un lavoro in prima linea.

Il suo meccanismo però era interessante, perchè richiedeva uno sforzo costruttivo minimo: una semplice pennellata di mucillagini sulla pagina interna del carpello permetteva a questo di arricciarsi di colpo, come un nastro quando si fa un fiocco, tenendo legati a sè i semi quanto basta per far acquisire loro l’energia cinetica per il volo. Gli xilani presenti però non erano abbastanza collosi da garantire un’adeguata efficienza, evidentemente. Molti altri aspiranti al posto avevano ulteriormente perfezionato questo sistema e l’uso di tessuti igroscopici e mucillaginosi abbinati a strati di cellule lignificate o cellulosiche era decantato da varie lettere e presentazioni. Hura crepitans come annunciato dal nome schiocca un colpo secco come un’arma da fuoco e come quasi tutte le Euforbiacee ha una passione per i poligoni da tiro e la balistica: Euphorbia boetica ad esempio centra il bersaglio anche da 8 metri di distanza grazie alla sola contrazione elastica del suo frutto e Croton capitatus lavora con cura anche sulla massimizzazione degli angoli di lancio. Meccanismi elastici a scatto come quelli delle Euforbiacee sono a disposizione anche presso altre specie, che li hanno ottimizzati sino ad ottnere dei veri e propri cannoni, capaci di spedire ben lontano da casa i pargoli, sparpagliandoli in modo che non si pestino i piedi tra loro. In un crescendo di vanità Canavalia gladiata si gloriava durante un colloquio di superare i 6 metri mentre per Bauhinia purpurea i metri sfoggiati erano più di 15 e non ho ancora capito se Tetraberlinia moreliana parlando di 60 metri era seria o provava un coup de theatre nel tentativo di impressionarmi. Sicuramente mi ricorderò di Impatiens capensis e di come alcuni suoi tessuti abbiano capacità di accumulare energia elastica paragonabili a quelle dell’elastina e di alcuni acciai speciali, perchè ai clienti con la fissa dei nuovi materiali interesserà sicuramente capire come sia possibile ottenere una simile performance.

Alcuni candidati avevano invece afferrato un’altra esigenza fondamentale per ottemperare alla richiesta contenuta nell’annuncio: proporre sistemi multiuso, che potessero essere utilizzati per compiere più funzioni. Quando sei a qualche anno luce da casa, un utensile tuttofare torna molto comodo. Uno di questi coloni previdenti era Erodium cicutarium, un parente del geranio, ed ascoltando il regalo che l’evoluzione gli aveva fatto per renderlo competitivo negli spazi aperti rimasi ammirato. Il suo meccanismo di dispersione era basato su un’arista filamentosa che si protende oltre il frutto ed avvolge due semi alla sua base. Questa struttura, a seguito della disidratazione, si spezza di colpo in due permettendo a ciascun seme di cadere a circa un metro dalla pianta madre per effetto dell’energia liberata nella rottura. Nel compiere questa operazione ogni mezza arista si arriccia come una molla e diventa particolarmente sensibile alla presenza d’acqua. Assorbendo e perdendo acqua mentre è appoggiata al suolo con il suo seme, questa specie di molla modifica continuamente la sua forma, impartendo al seme un movimento circolare a trivella che ne facilita l’interramento. Prima molla, poi cavatappi: una combinazione che consente al genere Erodium una elevata invasività nelle zone prative.

Un altro incontro illuminante ma poco redditizio fu con un rappresentante del genere Oxalis (quello dell’acetosella), che si dichiarava in grado di sparare i propri semi ad alcuni metri e quindi abile colonizzatore. La storia l’ho già sentita, gli risposi, è arrivato tardi. Guardi quella pila di faldoni: sono tutti di dinamitardi giavellottisti come lei. Non si scompose più di tanto e mise subito in riga il mio eccesso di arroganza.

Dovrebbe sapere che gli sviluppi dei sistemi di dispersione sono sempre in corso e che ogni pianta che incontra ha messo a punto qualcosa di suo, che la differenzia dalle altre. La diversità è una forza. Tutte le automobili da corsa hanno quattro ruote ed un motore, ma se competono tra loro non è solo per la diversa abilità del pilota, non trova? Noi Oxalis avremmo questa variante da proporle per la conquista dello spazio. Se ha mostrato scetticismo nei miei confronti forse non ha memoria circa le scoperte di Darwin sulla cleistogamia (cosa che oggi, a ridosso del compleanno del vecchio Charles, non le rende molto onore), il processo con cui a corolla chiusa i fiori possono essere autoimpollinati senza ricorrere ad una fecondazione incrociata. Ebbene, io e chi rappresento siamo in grado di effettuare entrambe le operazioni di cleisotgamia e “normale” impollinazione e questo ci permette di operare anche in assenza di impollinatori, come probabilmente avverrà sull’esopianeta dove ci volete spedire. Ma se ci sono impollinatori possiamo usare anche quelli, a patto che collaborino. Cosa c’entra questo con la balistica delle nostre capsule? Non moltissimo, ma c’entra con la vostra arroganza. Glielo spiego subito e brevemente, perchè vedo che è un tipo poco paziente. I semi ottenuti per fecondazione incrociata hanno un vantaggio evolutivo su quelli cleistogamici. Il loro patrimonio genetico rielaborato li rende statisticamente più capaci di resistere a condizioni difficili, perchè è più facile che almeno uno di loro abbia sviluppato doti migliori di quelle dei propri genitori, capacità che gli consentono di adattarsi a climi, condizioni pedologiche o luminose meno favorevoli o che gli permettono di fare fronte alla pressione degli avversari. Sono figli che possono andare lontano. Gli altri invece sono quasi identici ai loro padri ed alle loro madri e sa come si dice in questi casi: il seme cade poco lontano dall’albero, perchè essendo assai simile ad esso riuscirà quasi sicuramente ad adattarsi alle medesime condizioni ambientali e mandarlo in giro ad affontare gli incerti mondo sarebbe un rischio troppo grande. Questo pensavano i primi tra voi che ci studiavano, ma non era vero. Non spariamo più lontano i primi e le capsule contenenti semi cleistogenici non sono meno efficienti, niente bamboccioni nel genere Oxalis. Per noi vale sempre e comunque la pena di massimizzare la dispersione a prescindere dalla forma riproduttiva, perchè muoversi e conquistare nuovi habitat è un’istanza troppo importante. Consideri questa storia un regalo, io ritiro la candidatura a nome delle altre specie Oxalis perchè non ritengo vi sia la fiducia necessaria ad intraprendere un’impresa così difficile come la colonizzazione di un pianeta.

Per finire in bellezza dopo questa strigliata, l’ultimo colloquio lo feci invece con un vero conquistador, nel senso che avevo dif ronte un vero parente morale di Pizarro, Cortès e dei loro scagnozzi avidi di ricchezze, un parassita senza molti scrupoli quando si parlava di dividere vitto ed alloggio con il prossimo. Arceuthobium divaricatum, questo il suo nome, aveva il colore giallo di chi non ispira fiducia e l’aspetto appiccicoso di chi ti vuole fregare, ma il suo mestiere lo aveva affinato bene, nei boschi e nelle foreste nordamericane. La sua affiliazione era la stessa del Vischio e come tale era abituato a vivere a spese altrui parassitando nutrimenti ad altre specie, un presupposto interessante se si intende soppiantare o limitare un’eventuale flora extraterrestre. Dopo tutto, anche l’Australia è stata colonizzata dai galeotti e gli affari sono affari. Mi raccontò, con fare persuasivo, che un frutto esplosivo non torna comodo solo a chi sta spalmato sul suolo, ma anche a chi ha preso dimora nel superattico in cima agli alberi. Il panorama è migliore e forse l’aria più pulita ma se sei un parassita devi trovare il modo di saltare da una pianta all’altra senza troppi sprechi, perchè se tuo figlio cade in terra è destinato a morte sicura. Così l’evoluzione lo aveva dotato di un frutto in grado di  sparare a 90 km orari ed a circa 15 metri di distanza il suo seme singolo ed appiccicoso, passando come un Tarzan succhia linfa da una chioma arborea all’altra. Il sistema dell’Arceuthobium non prevedeva deiscenza, ma un accumulo di mucillagini igroscopiche e sostanze vischiose sino a raggiungere un turgore tale da esplodere per eccesso di pressione osmotica, colpendo gli sventurati vicini a diverse altezze. I numeri che mi mostrava erano notevoli, una specie poteva in pochi anni parassitare sino a più di 500 “ospiti” nel raggio di un ettaro. .

Alla fine, nonostante i brividi nella schiena dopo l’incontro con Arceuthobium (poche cose come un parassita siderale alieno possono spaventare a morte) andai dal cliente sereno. Le idee da copiare erano tante, collaudate e mai identiche tra loro. Ma soprattutto colloqui e curriculum mi avevano trasmesso lo spirito per il giusto attacco alla riunione, lo slancio e l’abbrivio per la conquista dell’uditorio. Tutti pensano che noi si stia fermi ad aspettare, ma ogni essere vivente ha codificato dentro di sé l’azione, l’autonomia e l’intraprendenza dei conquistadores. Quando vuoi conquistare lo spazio non puoi aspettare le mosse dei tuoi avversari, le devi anticipare e chi ha conquistato e combatte ogni giorno per le poche risorse della Terra sa che per colonizzare altri pianeti non basta una buona idea, ce ne vogliono mille diverse tra loro.

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PS: alla fine il cliente col pallino dei pianeti extramondo scelse lo Sfagno, perchè la classe operaia che per millenni si è fatta i calli  per il bene di questa terra deve andare in paradiso, ha detto.

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