Alberi da masticare

chicCìcles. Da che mondo è mondo a Bologna le gomme da masticare sono le cìcles. Il nome è arrivato con gli alleati nel ’45 portato dai militari che distribuivano, assieme a cioccolata e libertà, anche pacchetti di chicles, di chewing-gum, di cingòmme per usare il termine in voga a sud della Linea Gotica. Gli americani, come spesso gli capita, avevano a loro volta fatto un prestito linguistico dal Nahuatl, idioma Maya che include il termine chicle o meglio tzictli, che significa più o meno “appiccicoso”. Perchè il chicle è il lattice condensato estratto incidendo un albero ad alto fusto diffuso nelle foreste abitate dai discendenti Maya, a cavallo tra Guatemala e Messico nella regione del Petèn: Manilkara zapota. A questa pianta ed alla sua storia produttiva antica e recente New Agriculturist ha dedicato recentemente una bella monografia. Nel racconto si trova eco del recente rilancio del chicle sul mercato europeo, dell’attenzione per la sostenibilità della produzione e delle ricadute sociali nelle zone d’origine. Si parla anche dei vantaggi dati dalla biodegradabilità di questa gomma rispetto a quella ottenuta industrialmente a partire dal butadiene o dal polivinil acetato, ingredienti in genere sottesi al termine “gomma base” nella lista degli ingredienti delle gomme da masticare. Sulò tema esistono diverse evidenze sperimentali, come peraltro anche sul caucciù di Hevea brasiliensis non vulcanizzato. Evidenze che, comunque, non devono far dimenticare che le gomme naturali hanno tempi di degradazione comunque molto lunghi e non sempre identici a prescindere dalla fonte. Per capirci, la biodegradabilità del caucciù grezzo è migliore di quella del chicle ma in entrambi i casi i tempi sono molto più lunghi rispetto ad altri polimeri naturali, come la cellulosa.

Un bel video su youtube, in spagnolo,  descrive i diversi passaggi della raccolta e della lavorazione fatta dai chicleros, i raccoglitori che setacciano le foreste di Yucatan e dintorni per raccogliere da piante spontanee il latice di partenza.  La scelta del momento giusto per la raccolta, l’incisione a zigzag lungo la corteccia,  il filtraggio, la cottura ed il raffreddamento sono i passaggi cardine del metodo tradizionale. La scelta dell’incisione a spina di pesce è curiosa: rispetto ad altre piante laticifere come l’Hevea brasiliensis, la Manilkara secerne durante la stagione delle piogge un liquido molto fluido ed acquoso che cola velocemente sul tronco lungo i chiclero2solchi artificiali sino a raggiungere una borsa a tracolla posizionata dai raccoglitori esattamente alla base dell’albero (l’immagine a lato è di ML Alley-Crosby, il chiclero non è  coperto da assicurazione contro gli infortuni professionali).

Il risultato finale del lavoro dei chicleros è tecnicamente un elastomero, un polimero formato dalla condensazione di molte unità di isoprene (cis e trans 1,4-isoprene in parti uguali nel chicle, mentre il caucciù è formato solo da isoprene in configurazione trans) che creano lunghe catene lineari. Il processo descritto nel video è del tutto analogo ad una reazione chimica fatta in un laboratorio: i chicleros scaldano il latice per eliminare l’acqua e lo mescolano continuamente a caldo per favorire la polimerizzazione dell’isoprene che esso contiene, assieme a diversi altri ingredienti che conferiscono al prodotto finito anche aroma e gusto. La materia prima di partenza è infatti un mix molto elaborato di sostanze chimicamente assai differenti tra loro: terpeni come l’isoprene (circa il 20-30%), acqua ma anche amido, sostanze zuccherine (che lo rendono gradevolmente dolce alla masticazione al contrario di molti altri latici), proteine, enzimi, lipidi e via discorrendo. Spesso questa complessità determina anche problemi di tossicità da parte dei latici, in quanto possono essere presenti anche sostanze dermoirritanti o caustiche. O, come nel caso del caucciù greggio, proteine allergeniche. Il latice di Manilkara zapota è per fortuna scarsamente allergenico e non è irritante, altrimenti non sarebbe mai diventato un alimento tradizionale.

Parlando di queste materie prime spesso si fa giustamente leva sulla loro sostenibilità ambientale, sui vantaggi del derivato vegetale rispetto all’omologo sintetico, ottenuto da isoprene di origine petrolifera. La cosa merita qualche approfondimento, per avere strumenti di giudizio in più e definire i veri limiti di entrambi gli approcci. La questione della sostenibilità di una materia prima e della pianta che la produce ha sempre la stessa base: il rapporto tra la sua presenza in natura e la pressione esercitata dalla raccolta. Quando la richiesta supera un certo valore e la tecnica di raccolta non ottempera certe richieste ecofisiologiche della pianta, si accende la spia rossa. Ad esempio, l’incisione del fusto deve essere fatta ad arte tagliando solo la corteccia ed i canali laticiferi senza danneggiare l’area del cambio, pena la morte dell’albero. Inoltre deve trascorrere un periodo di circa tre-cinque anni tra una raccolta e l’altra e solo alberi con un certo diametro possono essere “munti”. Non è che la pianta ci sguazzi, peraltro: ogni incisione accresce il rischio di infezioni ed indebolisce comunque l’individuo, ma ogni albero abile ed arruolato arriva a garantire circa 2 kg di latice grezzo a stagione. Se però come spesso avviene gli intermediari ed i commercianti prediligono i raccoglitori meno accorti e più bisognosi (migranti sfruttati come raccoglitori intensivi a cottimo – tutto il mondo è paese, eh?), quelli che mirano alla quantità ed al tutto subito rispetto a quelli più legati alla tradizione ed a garantire continuità alla raccolta, allora possono essere sfruttate piante non idonee aumentando esponenzialmente il rischio di incidere sulla densità della specie allo stato spontaneo.

In assenza di piantagioni, i ritmi biologici ed ecologici dovrebbero determinare quelli della produttività e se il mercato si espandesse solo seguendo la curva dell’aumento della richiesta, in assenza di una politica di riforestazione il sovrasfruttamento sarebbe critico. La legge del mercato preme su quella della sostenibilità ambientale anche quando si parla di gomme da masticare e se improvvisamente il mercato delle cingòmme decideChiysse in blocco di usare solo ed esclusivamente gomme vegetali sarebbero dolori per le popolazioni di Manilkara. Le belle iniziative come quella delle gomme commercializzate dal Consorcio Chiclero reggono solo quando i numero sono piccoli o medio piccoli.

La densità di piante di Manilkara nella foreste a sud dello Yucatan può anche essere considerevole, dato che in alcune aree supera i 50 individui per ettaro e come sempre questo facilita la raccolta spontanea e la creazione di una rete. La variabilità produttiva è tuttavia elevata: solo alcune varietà producono abbastanza latice da rendere vantaggiosa la raccolta e storicamente la produttività massima è stata pari a circa 2.000 tonnellate l’anno. Ma si tratta di numeri degli anni 40, quando la domanda era maggiore ma era altrettanto più elevata la superficie di foresta vergine nella zona rispetto a quella odierna cosi’ come la densità della popolazione nell’area. Attualmente si viaggia sulle 400 tonnellate, che prendono la strada soprattutto del Giappone e dell’Europa.

Un’eccellente serie di approfondimenti sul’ecologia e sulla sostenibilità nella raccolta e nel mercato dei derivati di Manilkara zapota è disponibile su Google Books.