I cimiteri non danno pensieri

1209363_10201895521339661_1290487047_nLe tradizione vuole che novembre sia il mese dedicato ai defunti e che durante il prossimo fine settimana si vada a rendere loro visita al cimitero. Non è mia intenzione distrarvi dai vostri doveri nei confronti dei lari, quanto suggerire una nuova prospettiva alle vostre passeggiate e una nuova meta alle vostre esplorazioni botaniche, anche se godete della fortuna di non avere persone care al camposanto. Quindi, lasciate perdere i dibattiti, la rete, i palinsesti e per un giorno non studiate, non chattate, ma piuttosto stringete forte chi vi ama ed esplorate le mute tombe del cimitero monumentale a voi più vicino.

Botanica funeraria? Prima di entrare, calzate un paio di occhiali verdi, come ho letto su una tesi recente, assai esaustiva e dedicata alla botanica funeraria. Prima scoperta, esiste una branca della paesaggistica espressamente dedicata al caro estinto, avente come testo di riferimento un oscuro libro di fine dell’ottocento, scritto da un avvocato catalano chiamato Celestino Barallat y Falguera: Principios de Botanica Funeraria. Il culto dei morti come lo conosciamo ora stava cambiando proprio in quei decenni, e con esso la relazione tra vivi, morti e piante: è solo verso il 1830 che i crisantemi giapponesi iniziano a fare capolino in Europa, sulle bancarelle francesi per la precisione, e pare che il loro debutto come fiore commemorativo per i defunti sia databile con certezza solo al 1880 dalle parti di Tolosa. Nel libro di Ballarat sono riassunte le tecniche architettoniche di arredo verde e di disposizione delle piante, oltre a quelle prettamente botaniche di scelta delle specie vegetali da usare, poi riprese e ampliate in vari testi successivi. Principios de Botanica Funeraria è però il testo che ha posto le basi per la trasformazione del camposanto da cupo penitenziario del botanicafunerariapgmemento mori a spazio della serenità e, della quiete del rispetto. Nel far questo Barallat invita a rimuovere ogni riferimento funebre cruento e violento e sradica definitivamente, optando esclusivamente per essenze prive di frutti commestibili, una tradizione europea che spesso destinava questi spazi alla contemporanea funzione di frutteto. Seppur ecologicamente inappuntabile anche nell’ottica del riciclo e del riuso, e nonostante la più asettica delle prospettive della chimica emelentare, mangiare una mela sapendo che l’azoto proteico e il fosforo delle cellule potrebbe essere stato gentilmente offerto dal trisavolo ci pare del resto poco tollerabile. Il carbonio degli zuccheri no, quello comunque verrebbe dall’atmosfera. Date infine a questa notizia la lettura che preferite: Celestino Ballarat, vate della botanica funeraria, con invidiabile e macabro tempismo è passato a miglior vita il 2 novembre 1905.

Oasi, non solo di serenità. Trapassato Ballarat, nasce il cimitero monumentale: esteso per ettari, ricco di verde, cartesiano per geometrie e potature nelle zone più attive ma anche luogo da abbandonare, in cui piante e animali possono riprendersi spazi selvatici nelle zone più antiche. Il cimitero monumentale è uno spazio in cui i paesaggisti fanno convivere tutti gli aspetti del verde cittadino: di arredo estetico nei viali e nelle bordure, di compiti funzionali nella definizione delle aree e nella guida dei visitatori, di luogo privato e di decoro intimo in prossimità della tomba, di area ruderale in cui la natura riprende il sopravvento dopo il passare dell’uomo. Nel corso dei secoli, e soprattutto per effetto dell’inurbamento dei decenni recenti, anche lo spazio verde cimiteriale si contrae e assume gli stessi modelli urbanistici esterni: condomini funebri, aiuole cementificate, piante che evocano più l’agonia del vivere che non la vita eterna, simulacri plastici di fiori. Una mutazione che secondo alcuni ecologi si traduce anche in una perdità di biodiversità in quanto, attraverso la lente verde dell’occhio destro del botanico di città, queste zone recintate nel tempo diventano oasi urbane per specie rurali minacciate dalla scomparsa di spazi a bassa gestione, soprattutto ora che prati e aiuole sono di fatto ambiti artificiali e frequentemente ricostruiti per fini estetici. Con la lente destra, sempre altrettanto verde, il botanico guarda invece i cimiteri di campagna e vede un rifugio per specie vegetali minacciate dai trattamenti erbicidi condotti nei campi e sui bordi delle strade, ma anche dal pascolo degli animali e dallo sfalcio.

Habitat cimiteriali. Dal punto di vista ecologico il cimitero è infatti uno spazio tenuto in genere intatto per secoli, senza variazioni nella destinazione d’uso. Questo permette la crescita di alberi secolari, ma anche la formazione di oasi forestali inurbate o di riserve non esposte agli interventi e agli stravolgimenti agronomici. Per effetto del dovuto rispetto verso i defunti, nei cimiteri per secoli non passano bestie al pascolo e la selezione naturale agisce con pressioni diverse rispetto ad altri spazi gestiti dall’uomo. Ad esempio, in molti camposanti rurali della cultura anglosassone, più incline a conservare la vegetazione spontanea come un decoro e non come un segno di abbandono, la rimozione delle cosiddette erbacce avviene di rado. Inoltre, nel moasico del paesaggio e degli habitat, il cimitero monumentale o di campagna rappresentano tessere particolari, nelle quali l’isolamento genetico e la segregazione da altre popolazioni possono permettere di osservare traiettorie evolutive particolari. A seguito dell’intervento umano di disturbo, alcune piante australiane ad esempio sono ora reperibili solo in due nicchie precise: i cimiteri e le scarpate ferroviarie, e c’è anche chi ha indagato le popolazioni di batteri, alghe e licheni che hanno fatto delle lapidi il loro habitat d’elezione. Inoltre, cimiteri grandi e antichi ospitano spesso individui estremamente longevi. Negli Stati Uniti l’individuo più ampio di Quercus alba e quello più alto di Sassafras albidum sono per l’appunto ospitati in cimiteri, dove nessuno ha pensato di potarli o di abbatterli per far spazio ad altro. Si narrano poi episodi leggendari associati a illustri botanici statunitensi, che tenevano le loro lezioni di campo in sistematica all’interno di camposanti, dove le specie più interessanti della flora delle Grandi Praterie non erano a rischio di diserbo o di pascolo del bestiame. Le tradizioni culturali contrarie l’alterazione delle zone destinate alle sepoltura hanno infatti assicurato, in alcuni casi, che i cimiteri includessero al loro interno intere porzioni di habitat non disturbati dall’azione dell’uomo, come è avvenuto nelle praterie americane, nelle quali le trasformazioni agricole del paeasggio non hanno toccato i cimiteri. Meno dell’1% delle praterie originarie del Midwest è rimasto intatto e una piccola parte, per ovvie ragioni l’unica relativamente vicina alle zone urbane è ospitata in questi fazzoletti di terra. Non esistono sfortunatamente ricerche sui cimiteri monumentali italiani, ma in altre nazioni si è verificato che gli indici di conservazione e di qualità floristica di alcuni cimiteri sono discretamente elevati, a patto che la loro estensione sia medio-grande. Il poco materiale a disposizione indica che circa il 50% delle piante presenti nei vecchi cimiteri, quelli non troppo disturbati dalla mano dell’uomo, sia da considerare raro o poco frequente come racconta nonostante la vetusta età questo articolo sulla floristica dei cimiteri storici neozelandesi.

10520818_10204323115347994_6670816462877061792_nDentro la tomba, ancora piante. Ma gli occhiali verdi da calzare all’ingresso di un cimitero hanno anche il potere di vedere attraverso le cose e mostrano come le piante siano state scelte per ornare anche la parte ipogea dei cimiteri. Lo studio dell’archeobotanica e della paleoetnobotanica, ovvero della presenza di resti vegetali inseriti di proposito o casualmente nelle tombe, ha permesso ai botanici con la vocazione tombarola di ricostruire molti elementi del nostro passato. Non solo in termini antropologici o funerari, ma anche alimentari, cosmetici, medicinali, tintori. Restando nel seminato delle tombe famose, è investigando con lente e microscopio che è stato possibile assegnare un ruolo alle oltre 70 specie vegetali che decoravano la mummia di Tutankhamon o erano conservate nella sua tomba. E per dare nuova dignità alle erbacce che spesso si strappano dai piedi delle lapidi, si sappia che le ghirlande che ornavano l’interno della tomba del faraone erano fatte con Centurea cyanis e Anthemis pseudocotula, rispettivamente un fiordaliso e una camomilla di campo. Un altro capitolo caro alla paleoetnobotanica è quello dello studio delle piante medicinali e psicoattive, inserite nelle tombe sia a scopo rituale che terapeutico. E’ grazie allo studio di reperti rituali inseriti in tombe cinesi di 2500 anni fa che si è potuto ricostruire parte del percorso che ha portato la canapa indiana dall’Africa. Ed è grazie alle indagini sui cimiteri preistorici spagnoli come quello di Cava de los Murcielagos che si è verificato l’uso di oppio in Europa già nel 2500 a. C.. Ed è grazie alla scoperta di polline di Ephedra in una tomba risalente a 60.000 anni fa che si ipotizza l’uso di questa pianta eccitante da parte dei Neanderthal, in un epoca in cui Homo sapiens ancora iniziava a mettere il naso fuori dall’Africa.

La relazione tra botanica e cimiteri resta attuale tornando al contesto urbanizzato, come testimonia l’esperienza di Dublino, dove il Cimitero Monumentale e i National Botanical Gardens occupano il medesimo stesso complesso verde ai margini della città, condividendo di fatto il medesimo spazio ecologico. Anche se non siete in Irlanda, seguite il consiglio: lasciate perdere i salotti coi talenti e le baldracche, venite all’ombra dei cipressi, venite a farvene un’idea.