Etnobotanici illustri

L’etnobotanica, ovvero lo studio dei mille usi delle piante da parte dell’uomo ha vissuto epoche avventurose e floride durante il Novecento, quando il fascino delle esplorazioni ha potuto coniugarsi con l’immaginario amplificato della divulgazione mediatica e con la compenetrazione tra l’approcio umanistico e quello scientifico. Richard Evans Schultes è stato probabilmente uno dei più famosi etnobotanici di sempre, grazie al suo spirito da esploratore ed all’appeal della sua specialità -le piante allucinogene- che si addentellava alla perfezione con molte realtà culturali e sociali del suo tempo. La sua importanza fu figlia di un cocktail elaborato e ben calibrato: una parte di scienziato (suoi i primi lavori su peyote, yajé, ebéna e curaro negli anni ’40, sua la scoperta e classificazione di un enorme numero di specie botaniche tra cui oltre 2000 di uso medicinale), parti uguali di Colonnello Kurtz, Indiana Jones, Fitzcarraldo e Castaneda (sparì in fuga solitaria per 12 anni tra Venezuela e Brasile, vivendo presso le popolazioni amazzoniche e sperimentando le loro pratiche enteogene basate sull’uso di piante), una parte di comunicatore di successo (The Plants of the Gods: Their Sacred, Healing, and Hallucinogenic Powers è tutt’ora in stampa ad oltre 30 anni dalla prima edizione), una parte chioccia (fondatore ed editore della rivista Economic Botany per lunghi decenni)  ed una parte  Cartier-Bresson (con la sua Rolleiflex ha perpetuato viaggi, esperienze e culture ed una selezione delle sue foto è raccolta in questo bel libro, giustamente segnalato anche dalla guida Lonely Planet del Brasile).

L’epopea di questo protagonista poliedrico della relazione tra uomini e piante è stata poi raccontata in un recente documentario di History Channel, disponibile in versione integrale in lingua spagnola su Youtube.

Ora, a dieci anni dalla sua scomparsa è stato reso di pubblico dominio il corpus integrale delle sue pubblicazioni, una risorsa fondamentale per chi volesse cimentarsi in una tesi interdisciplinare sulla sua figura. Per tutti gli altri, il contributo migliore per comprendere il personaggio ed il suo ruolo nel definire il baricentro di una disciplina ibrida per definizione è questo bel reportage del New Yorker del 1992.