Piante che suonano

Uomini che suonano piante. C’era una volta un tempo in cui le mamme, con cipiglio asburgico, ammonivano i pargoli: “Smetti subito di giocare col cibo. E mangia quelle verdure, che fanno bene“. Poi accadde una cosa. Alcuni bambini viennesi scoprirono che con le verdure si poteva suonare, andando oltre l’ovvio uso percussivo. E trasformarono un peperone in una tromba, un sedano in un basso, una melanzana in una drum machine, una carota in uno xilofono o in un flauto. E non paghi costruirono un didgeridoo ortofrutticolo con un rafano ed un violino sperimentale con l’epidermide di un porro, un corno inglese con una zucca, sino a mettere insieme un’intera orchestra dal fruttivendolo. Credo sia nata così, la Vegetable Orchestra, da un impellente desiderio infantile di giocare a tavola, trasmutando l’odiato broccolo dapprima in un passatempo fanciullesco e poi in una passione che pare restare fresca come appena colta. Sul sito di questa unica -e diciamolo, meravigliosamente nerdissima- orchestra a Km zero sono illustrati anche tutti gli strumenti sinora inventati al reparto ortofrutta e le date dei concerti (a proposito, a marzo suonano presso l’Auditorium di Castel Sant’Elmo di Napoli). Alla fine dello show, l’orchestra è lieta di invitare gli spettatori ad un ricco buffet a base di pinzimonio e minestrone.

Una volta tolto l’uso di prodotti freschi, l’idea ludica dei simpatici viennesi vede stingersi parte della sua unicità, poichè i musicologi insegnano che da sempre l’uomo si è rivolto alle piante ed ai loro organi per produrre strumenti (i flauti di bambù, la korà maliana in cui la cassa di risonanza è costituita da una zucca o le maracas, sempre derivate da qualche peponide). In alcuni casi però l’estro ortaggiofonico si è spinto oltre (citofonare Cage) e si è giovato dell’elettronica semplice, andando ad amplificare cactus o altre piante e registrando i suoni che si producono per vibrazione, pizzicando spine e rami come fossero corde di un’arpa. In tutti questi esempi tuttavia il suono è generato dall’uomo e la pianta è appunto un semplice strumento, di nome e di fatto.

Krautrock. Crescendo di complessità si incontrano anche altri sistemi strumentali, più esoterici, aleatori e spesso origine di devianze nella lettura del fenomeno, per ottenere suoni da un vegetale. Queste forme creative partono curiosamente sempre da spine, elettriche stavolta, poichè sfruttano in modo più massiccio l’elettronica ed impiegano input fisici generati dai vegetali (differenze di potenziale tra suolo e pianta, in genere), li convertono in dati tramite un sistema DSP e processano i segnali digitali così ottenuti con software appositi, in cui ad ogni valore in ingresso corrisponde un tono o un semitono preciso. Più la variazione a monte è graduale e più facile è ricostruire a valle un effetto musicale armonico. Il risultato non è un fenomeno mistico ma una una semplice traduzione di segnali, ottenibile interfacciando una qualunque sorgente variabile ed un convertitore, come onestamente racconta questa super-esoterica ed avanguardissima nota di copertina della Stereofernic Orchidstra (circa 1974).

“Side One of this record represents a non-scientific effort to record the complex electro-chemical activity of an Indian azalea, a philodendrom, a Boston fern and an amaryllis… They were recorded using a specially constructed ‘plant amplifier’ at the U.S. Botanical Gardens… Side Two uses the same recording; however, each of the plants’ signals have been fed into a massive electronic music synthesizer. The result is presented as musique concrete. Both the human wave form musician and the plants control the synthesizer’s output. We hope this record stimulates your imagination and sensitivity to the stereofernic world of plants.”

La Stereofernic Orchidstra era il frutto delle sperimentazioni di un giovane  fisico statunitense di nome Norman Lederman, al lavoro nei primi anni settanta presso l’US Botanical Garden e la storia dei suoni prodotti da queste “plugged plants può essere ascoltata in questo divertente real audio dell’emittente americana WAMU (leggenda vuole che persino i Rolling Stones abbiano commentato il risultato sonoro delle sue prove). Alla base di questo fenomeno piantacustico la presenza, in ogni organismo vivente, di gradienti ionici tra l’interno e l’esterno di cellule, organi, tessuti e nel caso delle piante anche tra la parte radicale, in cui gli ioni vengono assorbiti dal terreno e le foglie, dove gli ioni svolgono le loro funzioni fisiologiche. Ogni volta che si hanno due zone separate con diverse concentrazioni di ioni, lo dice la chimica generale, si ha un potenziale elettrico ed una differenza di potenziale misurabile con appositi strumenti. Nel caso delle piante questa differenza è di qualche milionesimo di volt e come ha spiegato lo stesso Lederman nel 1974, basta produrre un amplificatore che sia in grado di ingrandire questo segnale sino al mezzo Volt necessario a produrre un suono nello spettro dell’udibile ed il gioco è fatto. Anzi, attualmente per avere un segnale da processare via DSP basta molto, molto meno. Le sperimentazioni di Lederman sul ponte di Wheatstone per produrre suoni dalle piante hanno poi preso una china più cara al CICAP, al punto da diventare elemento di proselitismo da parte di alcune sette esoteriche italiane, ma lo studio degli aspetti fisiologici dei segnali elettrici all’interno dei vegetali è continuato -tra alti e bassi- nella comunità scientifica e nel tempo si sono raccolte molte informazioni su come funzionino e perchè vi siano delle differenze di potenziale nelle piante, anche inducibili a seguito di eventi precisi. Le piante non producono variazioni di potenziale come manifestazione di simpatia per l’uomo nè per comunicare con l’esterno e tanto meno il fluttuare del loro potenziale elettrico è manifestazione animistica, neurologica o di gusto estetico musicale. Pochi anni fa è apparso un lungo commento sull’argomento sulla rivista New Phytologist, fortunatamente ad accesso libero e molto discorsivo, che riassume a grandi linee questi concetti: a seguito di lesioni fisiche o termiche, le piante possono produrre segnali elettrici più intensi, probabilmente per segnalare a livello sistemico un allarme ed attivare risposte fisiologiche che per via chimica sarebbero indotte più lentamente. In condizioni normali questi segnali hanno intensità più bassa e variazioni meno drastiche, indotte da risposte fisiologiche normali legate ad un’ampia serie di stimoli ambientali che includono la pressione, la luce, il calore, lo stress osmotico e la disponibilità di acqua. Nel caso di alcune piante, nel girasole ad esempio, queste variazioni del potenziale sono ottenute dalla pianta per semplice modifica della pressione del flusso xilematico, ovvero della colonna d’acqua e ioni trasportata dalle radici verso le foglie. Un aumento o diminuzione della pressione causano una variazione nel trasporto attivo di ioni attraverso le membrane cellulari, con cambiamento della concentrazione ionica tra l’interno e l’esterno delle cellule. Niente segnali elettrici veri e propri, più che altro una conseguenza idraulica, ma sufficientemente intensa da determinare variazioni registrabili da uno strumento e convertibili da un sintetizzatore audio.

Da questa parte, ho sentito qualcosa! Scaricando per un attimo a terra l’elettricità dei viventi e le aure paranormali che rischia sempre di evocare, possiamo scoprire che le piante in realtà emettono effettivamente suoni -suoni veri, onde acustiche reali- in modo autonomo e indipendente dall’uomo. Solo che lo fanno molto sottovoce e, se potessero, cercherebbero di non farsi sentire da nessuno, perchè qualunque suono nella foresta diventa un segnale per i predatori in agguato. A John Cage sarebbe piaciuto un sacco, ad esempio, sapere che gli alberi ad alto fusto in condizioni particolari di evotraspirazione producono suoni ritmici a causa della cavitazione inerziale che si genera durante il trasporto dell’acqua nelle piante. La cavitazione è un fenomeno fisico legato ai fluidi in pressione ed in movimento, due condizioni presenti anche nei vasi xilematici delle piante ad alto fusto, quelli che trasportano acqua e nutrienti dalle radici verso le foglie. Questi vasi sono rigidi, formati da cellule morte e lignificate e si comportano come cannucce, nelle quali la traspirazione della chioma opera come un aspiratore dall’alto e la pressione radicale come una pompa dal basso. Il fenomeno della cavitazione si presenta nelle piante quando la tensione di vapore all’interno dello xilema diventa abbastanza grande da portare all’evaporazione parte dei gas disciolti nell’acqua trasportata, formando bolle e producendo un suono caratteristico. Un esempio registrato può essere ascoltato qui, è ottenuto a circa 47 Hz, rallentato sette volte e potremmo chiamarlo uno xilemofono.

Questo concertino va in scena in modo particolare durante i periodi di siccità, quando il potenziale idrico delle radici non è in grado di compensare adeguatamente la perdita d’acqua della chioma, generando uno squilibrio. Gli emboli che si formano a seguto della cavitazione bloccano tuttavia il transito dell’acqua e se la pianta non riesce a riparare la situazione durante la notte, va incontro ad un danno e ad un progressivo indebolimento. Molte cavitazioni producono molti schiocchi e molti schiocchi da una pianta significano quindi pianta in difficoltà. Il suono della cavitazione è debole e quasi inudibile dall’uomo ma una buona parte dell’emissione acustica ha luogo nel range degli ultrasuoni e pare possa essere percepiuta distintamente da diversi insetti xilofagi, per i quali questo suono è dolce musica, perchè segnala una preda.  E la gazzella malata che si distingue dal branco, si sa, è la prima ad essere notata dai predatori. La musica dello “xilemofono”, così curiosa per noi umani, può quindi diventare un segnale pericoloso per la pianta, attraendo su di sè diversi parassiti, come raccontano gli entomologi e gli esperti di bioacustica.

Spogliati delle loro motivazioni fisiologiche e delle spiegazioni razionali, per gli orecchi romantici di un uomo i suoni diretti o indiretti delle piante restano un evento in grado di riattivare i circuiti infantili della curiosità e dello stupore, come una giostra. Gli stessi che si accendono a chi scopre la Vegetable Orchestra, a chi vede John Cage suonare un cactus, a chi sente un suono sintetico “uscire da una pianta”. Sono elementi che possono essere usati per creare fascino, spiegare concetti e relazioni tra uomini e vegetali  che senza un buon apripista farebbero fatica ad aprirsi la strada. Giusto pochi anni fa l’artista inglese Luke Jerram ha organizzato un’installazione notturna presso l’Orto Botanico di Cambridge proprio con questi scopi, amplificando i suoni della cavitazione delle piante in serra, del fruscio della linfa nei vasi xilematici e portando i bambini ad esplorare suoni e sensazioni che stanno al di fuori dello spettro della nostra normale capacità. Il risultato è il suono accorcia le distanze, apre al gioco, all’esplorazione e con ogni probabilità alla fatidica domanda: “mamma, perchè le piante suonano? Ci posso giocare?

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L’immagine del 7″ della Stereophernic Orchidstra viene da qui.