Yann Arthus-Bertrand è il celeberrimo autore di foto aeree di paesaggi incontaminati o più o meno manipolati dall’uomo. Alcuni suoi scatti sono entrati nell’immaginario collettivo al punto da consentire la rapida identificazione del settore fotografia/arte nelle librerie di mezzo mondo (cfr. la radura amazzonica a forma di cuore). Molte sue opere tendono verticalmente all’estetizzante e raccontano poco, oltre alla patina ed all’emozione a bassa persistenza. Se mi è concesso, ai miei occhi le foto di Athus-Bertrand mancano di cattiveria, non scartavetrano l’occhio ma si limitano ad appagarlo, consolatorie.
Poco prima di Natale è uscito, per opera di diverse università ed organizzazioni americane, un volume che impiega analoghe tecniche di ripresa dall’alto ma offre più cartavetrata, più attrito e più sugo per la rielaborazione. América Latina y el Caribe – Atlas de un ambiente en transformación è, per l’appunto, un atlante di foto aeree di 65 luoghi in 33 nazioni latinoamericane, scattate a distanza di alcuni decenni ed affiancate in un impietoso confronto prima/dopo. Per ogni località viene fornita una dettagliata descrizione di quanto illustrato nonché delle cause che hanno determinato la trasformazione ambientale, spesso drastica, spesso carnale ed oscena -nel senso estetico del termine. Per i più geek, l’atlante è consultabile anche in versione Google Earth e per i più pigri è disponibile anche un pdf con i 10 casi più significativi.
Le foto raccontano di un ambiente oggetto di una trasformazione intensa, per effetto di una pressione antropica sempre crescente e producono un flashback di processi identici, andati in onda qualche secolo e qualche millennio fa nelle aree del mondo che oggi definiamo sviluppate (Europa, America del Nord, Giappone, Australia). La riconversione agricola del Gran Chaco in Paraguay e delle campagne di Salta nell’Argentina settentrionale è quella della Pianura Padana in epoca romana e settecentesca, la deforestazione amazzonica è un film già visto in Europa Centrale, l’espansione di San Salvador è la rievocazione di ogni metropoli occidentale, il decadimento dell’ecosistema costiero per erosione della mangrovie nella baia di Parita, così come le sue conseguenze, ripete una storia andata in scena tante altre volte nel passato. Le persone che determinano ora quelle modifiche ambientali così palesi sono come galassie remote osservate dalla Terra ora: ci raccontano di una fase dello sviluppo umano che noi abbiamo già vissuto e goduto. Se interpellate a riguardo circa l’impatto del loro agire spesso -ma non sempre- ribattono che stanno semplicemente facendo quello che noi abbiamo già portato a termine e che i colpevoli di ieri non hanno diritto di giudicare chi agisce ora per dare un futuro migliore ai propri figli. Certo, circa gli effetti di questo modello di sviluppo c’è di mezzo una consapevolezza acquisita -ma non spesso spesa, non sempre convertita da ideale in potenza ad agire concreto- che cambia la lettura di pancia che diamo a queste immagini satellitari non appena le vediamo. Per chi ci vive è il sole di un avvenire migliore, per noi è una campana a lutto. Eppure mi stranisce pensare come, ad esempio, la ripresa dall’alto di una risaia balinesiana fatta da Arthus-Bertrand, pur essendo una manipolazione del territorio altrettanto impattante e drastica, non provochi un’analoga oscenità, ma al contrario comunichi una rassicurante, statica, sensuale certezza naturale. Forse, per riflettere sugli effetti ambientali dello sviluppo umano il sociologo, l’economista e lo scienziato non bastano. Ci vorrebbe anch un laureato in estetica.
Cosa? forse qualcuno ha parlato della necessità dei paesaggisti? Eh?
E magari di chi come Zanzotto ha “paesaggito molto”:
“Oggi una megamalattia è in corso: non sappiamo nemmeno se si possa più parlare di natura. Siamo immersi in una tensione continua, che spinge a uno sviluppo brado, cannibalistico, un affanno a costruire che ci mangia la terra sotto i piedi e punta all’autodistruzione”.
Per miope stoltezza, si potrebbe riassumere.
Sfoglia Junkspace di Rem Koolhaas, quando ti capita. Prova a sostituire “architettura” con un altro termine, è molto divertente. Io lo sto facendo con “prodotti per la salute”, molto costruttivo.
A me resta il dubbio, però. Perchè il paesaggio plasmato con aggressività dalle risaie, i terrazzamenti liguri, le vedute di campi fioriti di tulipani micropropagati in file chilometriche non ci fanno lo stesso effetto della centuriazione nel Gran Chaco, anzi?
“In termodinamica una trasformazione reversibile di un sistema termodinamico è una trasformazione che, dopo aver avuto luogo, può essere invertita riportando il sistema nelle condizioni iniziali senza che ciò comporti alcun cambiamento nel sistema stesso e nell’universo. In particolare, è richiesto che non avvenga dissipazione di energia.”
Ecco, le trasformazioni irreversibili invece mi danno ansia – e i campi di tulipani pure, a dire il vero…
😉
Ok per la termodinamica, che qualunque alfiere della sostenibilità se la studi almeno una volta nella vita. Però mi resta il dubbio: perchè le foto di certe trasformazioni ambientali irreversibili fanno fare “oooh” ed altre portano al colonnello Kurtz (“l’orrore.. l’orrore“)?
Meristemi, Babbo Natale le ha poi portato quel famoso upgrade di memoria, vedo: qui non si riesce più a starle dietro 😉
E dunque -perennemente in ritardo- arranco per dirle che questo post mi fa sentire un po’ meno sola: ché quando capita di guardare paesaggi agricoli dall’alto (o anche semplici cartine) e capita di esprimere considerazioni-dubbi-domande simili alle sue, la gente mi guarda sempre mooolto strana 😉
E comunque: guardando i riquadri di territorio agricolo dal finestrino di un aereo o i terrazzamenti sulle montagne dell’Alto Atlante, anche dopo esser divenuta consapevole dei danni recati al territorio mi è sempre venuto da pensare che la loro accettabilità estetica abbia in qualche modo a che vedere con l’accettazione (o non accettazione) culturale dell’opera umana sottostante. Quindi: risaia balinese = millenario, pazientissimo lavoro umano che si è inciso sulle pieghe della terra, in qualche modo assecondandole = accettabile; “monete” verdi formate dagli irrigatori rotanti sul territorio dell’Idaho = colonnello Kurtz. Ma questa è solo una mia idea/sensazione, sarebbe interessante vagliare un certo numero di casi per capire se l’ipotesi può essere accettabile.
E comunque, se posso permettermi: comparare una patinata immagine di Y. A.-B. con le immagini né verticalmente né orizzontalmente estetizzanti del citato atlante non mi sembra cosa buona e giusta. Al di là dell’occhio e della tecnica, anche le altezze delle riprese sono troppo diverse per aiutare a capire i diversi effetti estetici che ne ricaviamo.
E infine, e qui gli eventuali laureati in estetica mi mangeranno, sospetto che anche il nostro senso estetico sia storicamente mooolto determinato e condizionato. E con ciò riscompaio (e grazie per questo bel post, e anche per tutto il resto).
*dello starmi dietro: La sede riaccende malauguratamente la stufa solo lunedi’ mattina. Nel mio studio e nei laboratori ci sono 5 gradi a mezzogiorno, anche grazie all’edilizia prefabbricata. Qualcosa devo pur fare oltre a lavorare da casa…
*dell’upgrade di memoria: Ancora niente, neanche dalla befana. Inizio a disperare.
*del resto: Google ci ha prontamente regalato questo tool per continuare a porci domande (le mappe su Congo ed Amazzonia sono proprio da lumaca sul filo del rasoio). Ok per la velocità della trasformazione, che richiama istintivamente la reversibilità termodinamica evocata da Luca Fadini, perchè tutti pensiamo istintivamente che una trasformazione “di colpo” sia meno reversibile di una lenta e graduale. Che sia vero, probabilmente è da discutere. Ci aggiungerei anche la scala, che forse è quello che intendi tu parlando di altezze e che lo stesso Luca sottointende (immagino che un tulipano o due gli piacciano, ma che abbia problemi con dieci ettari di tulipani seriali). Anche io sono convinto che l’apprezzamento estetico sia figlio dei tempi ed in questi tempi abbiamo il terrore delle modifiche massive ed uno scarso ottimismo sulle nostre capacità adattive e di integrazione.
Non sono proprio d’accordo che le risaie balinesi siano esteticamente gradevoli. A me fanno pensare sempre (ok, non solo loro, ma anche) a quello che c’era prima. E non sempre la deforestazione amazzonica (non ho avuto il coraggio di guardare, ma se c’è anche quella indonesiana credo si anche peggio) è sgradevole, o meglio, non a tutti – prova a chiedere a Benetton o a un missionario. Come a dire che il senso estetico quando deve “giudicare” paesaggi che più o meno hanno a che fare con la natura soffre tremendamente di incursioni della cultura. E quindi è postmodernamente variabile come il volo di una farfalla.
Ti do un’altra interpretazione, tanto sono un tanto al chilo. I nostri occhi sono appagati quando il paesaggio è verde o in ogni caso colorato; cioè vivo. Quando vediamo dall’alto le distese marroni, sappiamo che quello corrisponde a morte. E in questo caso il nostro occhio è influenzato dalla storia evolutiva, che ha sempre cercato di evitare le distese marroni di savana bruciata dalla stagione secca e di deserto. Se fossimo gazzelle, il nostro giudizio sarebbe opposto.
Il mio punto non aveva ambizioni evolutive ancestrali ma molto contemporanee, credo, e riferite all’uomo medio del 21 secolo, quello che non studia ecologia e ha un contatto con la natura molto superficiale. Le foto “YAB-style” vendono a sporte mentre atlanti come quello di UNAM avrebbero un appeal prossimo allo zero, anche se esistesse la versione Hello Kitty. Eppure spesso raffigurano situazioni del tutto simili, per chi le sa interpretare. Lo stesso vale per qualunque verità espressa nuda e cruda a fronte di una verità carrozzata di illusioni posticce, ma credibili per l’occhio di chi le vuole trovare (per questo trovo le foto di YAB “consolatorie”). Credo che in tutto questo vi sia una motivazione emotiva che va in risonanza con le regole della pubblicita (non l’ho trovato in italiano, per chi non ha pazienza col video: “Advertising is based on one thing, happiness. And you know what happiness is? Happiness is the smell of a new car. It’s freedom from fear. It’s a billboard on the side of the road that screams reassurance that whatever you are doing is okay. You are okay.”).
L’ipotesi del verde rassicurante non credo sia l’unica e credo contino forse di più, nel generare la “libertà dalla paura” le curve arrotondate e sinuose, le visioni a campo aperto ma non troppo, l’evocazione di un lavoro manuale, lento e non meccanizzato che trasmette un “controllo” umano sugli eventi (questo, tutto postmoderno o simile al terrore per le stregonerie in altre epoche?). Non so quanto di archetipico possa esserci – sono un assoluto incompetente nella materia e come filosofo valgo una cicca- ma le risaie curvilinee e terrazzate (che qui sono uno stereotipo, avremmo potuto usare altro) rassicurano l’osservatore per il loro essere mimetiche di una forma naturale che abbiamo introiettato in qualche modo.
Mo’ ora -oltre al paesaggista, il sociologo, l’economista, lo scienziato e il laureato in estetica- ci servono pure un filosofo, uno psicologo junghiano e uno gestaltiano. E’ un Rorschach collettivo, ‘sto post 😉
Comunque: a me il territorio arido dell’Idaho inquieta meno del verde (e pure curvilineo) dei cerchi da irrigatori rotanti, come la mettiamo?
Per quanto mi riguarda, la questione mi suona un po’ simile a quel che provo guardando, su una cartina politica, i confini Libia-Egitto-Sudan: non posso e non potrò mai percepire come “naturale” quelle linee rette, quei confini decisi a tavolino. Mentre invece, e persino in barba al “proletariato che non ha nazione”, riesco perfettamente a gabellarmi come quasi “naturali” i confini tra Italia-Svizzera-Francia, per via delle linee irregolari delle Alpi. Lo stesso dicasi per i lavori dell’uomo sul territorio, appunto.
Il solo luogo sulla Terra da cui è escluso il dolore: l’Eden. Che però, si sa, ha chiuso i battenti. Quel che più gli assomiglia – che tende a… – è il giardino.
Ma nel giardino non si mangia (non ce n’è bisogno).
Guardare un paesaggio agricolo come fosse un giardino è un tradimento estetizzante – che fa solo chi è a pancia piena o a testa vuota.
Piuttosto, un “bel” paesaggio è quello che risulta da una sana relazione dell’uomo con l’ambiente in cui vive.
Amen.
@ Equipaje: Eh, quando uno non ha le idee chiare il passo dal brainstoriming al Roroschach è breve e da lì si salta diretti al tresette, di solito. Il curvilineo dei cerchi è immediatamente riconosciuto come seriale e quindi come “non-simil-spontaneo”, però. Non ho capito se siamo d’accordo oppure no, chiederò al primo aruspice che passa (che con la moria di volatili per’… uhm).
@Luca:non so perchè ma non ti ha preso il trackback. Per chi volesse, le riflessioni approfondite del mio paesaggista di riferimento sono disponibili qui.
@ Equipaje: ma anche a te facendo le associazioni spontanee con i cerchi dell’Idaho viene “business” e con le risaie balinesi viene “cibo”?
Ormai ‘sti cerchi e ‘ste risaie potremmo metterle anche a Poggio Versezio ed a Voghera 😛
No: con “cerchio dell’Idaho” mi viene “artificialmente giustapposto su un territorio come un bat-segnale sul cielo di Gotham City” e “cosa che lì non c’entra proprio per nulla” = fastidio/invadenza/prepotenza, mentre con “risaia balinese” mi viene “ma che belle isolinee/isobare” o anche “ma che bella cellula vegetale” = armonia/rispetto/utilizzo delle nicchie; qualcosa di sintetizzabile, insomma, come “artificiale” vs. “naturale”. Questo (mi) accade molto prima di iniziare a ragionare sulla scala delle fotografie e su quel che in quelle due figure effettivamente si produce. Ma a me mette moderatamente a disagio anche la quadrettatura della Pianura padana, dunque sulle mie percezioni non mi azzarderei a costruirci nemmeno mezza teoria di scarto 😉
Poi ci sarebbe ancora da dire che anche la regolarità -se la fotografa YAB- riesce ad avere una sua bellezza: ho in mente le foto sue delle saline, o della bacchiatura degli olivi -olivi piantati a distanze regolari come cespi di insalata, o come bambini nei banchi di scuola, come soldati- che trasmettono un’idea di assoluta innaturalità (la natura costretta in standard e forme che non le sono proprie, chiaramente per consentire o velocizzare un “trattamento industriale”), ma pure non disturbano.
Poi, e infine, YAB manca certamente di “cattiveria”. Però io in salotto non ci appenderei una foto dell’atlante di UNAM mentre invece, lo confesso qui su pubblico blog, ci ho tenuto appeso per tutto il 2005 un calendario YAB, e anzi l’ho pure conservato 😉
In conclusione: sì, mi pare che noi si sia abbastanza d’accordo o meglio, che noi si abbia percezioni abbastanza simili. Ma, ecco, mi piacerebbe molto poter comparare una foto YAB e una UNAM dello stesso territorio, alla stessa scala, scattata alla stessa ora del giorno, per (cercare di) capire quanto l’occhio artistico e la tecnica possano cambiare la mia percezione.
Scusa scusa la logorrea!
PS: e comunque sinché non arrivano a Carrapipi e a Roccacannuccia non io mi preoccuperei 😉