Sarà anche asinino, ma dietro questo cocomero c’è una cultura

La Natura, come la luna di Heinlein, è una severa maestra in grado di impartire dure lezioni a chi la sfrutta e la spreme alla stregua di una colonia. Sarà anche per questo suo animo vendicativo e caparbio che noi umani ne diffidiamo e la guardiamo con lo sguardo sospettoso di chi -come Shāhrīyār- è certo del tradimento? Sarà per questo che ci adoperiamo per adottare strategie di eliminazione e sostituzione con succedanei, per minimizzare la dipendenza? Sarà come sarà, ma -come Shéhérazade- ogni sera la Natura ci racconta una storia nuova. E va sempre a finire che ci facciamo ammaliare, come il rude Marte con la seducente Venere…

Frutti proibiti. Se vi capitasse di passeggiare per le sale della National Gallery di Londra avreste modo di ammirare dal vivo un dipinto di Botticelli chiamato Venere e Marte, non a caso evocati poco sopra. Il dipinto su tavola è disponibile in alta definizione ed in versione navigabile sul sito del museo, il che consente di magnificare con cura alcuni dettagli interessanti per la nostra storia. L’opera viene letta dagli storici dell’arte come un’allegoria del matrimonio (e/o dell’atto sessuale), unico evento capace di condurre alla pace dei sensi anche all’uomo marziale per antonomasia, blandito dalla sensualità di Venere al punto da farsi rubare le armi, trasformate in giocattoli, e giacere inerme e stordito, alla mercè dell’amore. In basso a destra, proprio sotto al Marte obnubilato, è raffigurato un diavoletto tentatore che accarezza un frutto oblungo e spinoso attorno al quale si è recentemente aperto un piccolo dibattito. Una prima interpretazione (fatta da un botanico di Kew con poca propensione all’arte ed alle sue regole) aveva infatti identificato nel dono diabolico il frutto di Datura metel o Datura stramonium, piante da sempre associate alla narcosi ed alla perdita di contatto con il reale, a causa della presenza di alcaloidi tropanici allucinogeni come atropina e scopolamina. Quest’ultima ad esempio ha una buona letteratura come agente in grado di annullare la volontà delle persone a cui è somministrata, rendendole succubi di chi la propina loro. Una lettura che ben si attaglia alla perdita di sensi impersonata da Marte ed al ruolo tentatore -da peccato originale rivisitato- del frutto proibito, del femminino di Venere mediato dal lato oscuro della forza impersonato dal satanello. Una lettura ineccepibile appunto, che però sembra non tenere conto di tre elementi cardine: la datazione del quadro, la carpologia ed il rapporto artista-osservatore. La forma del frutto infatti non sembra coincidere in modo così preciso, le spine tipiche della capsula del genere Datura non sembrano così evidenti anche ingrandendo al massimo l’immagine, che rivela un frutto peloso ed ispido, ma non manifestamente aculeato. Del resto Botticelli non era un botanico e potrebbe averci messo del suo, dando poca rilevanza ad un carattere morfologico da lui considerato non fondamentale. Tuttavia, la funzione degli oggetti dipinti all’epoca è strettamente simbolica ed a questo fine il loro risconoscimento da parte dell’osservatore deve essere pressochè immediato. La veridicità della rappresentazione diventa pertanto fondamentale. Difficile quindi che Botticelli abbia trascurato le spine, difficile che abbia posizionato in quel modo nelle mani di un diavoletto un frutto spinoso e ostico da maneggiare, se voleva che il pubblico lo riconoscesse e lo ricollegasse a qualcosa di noto, a qualcosa che trasmettesse senza ambiguità un messaggio. Nel dubbio, sono l’origine geografica della pianta e l’inquadramento storico a dirimere la questione:  se è vero che Datura stramonium è specie latinoamericana, Colombo sbarcò ad Hispaniola nel 1492 e la datazione di Venere e Marte dice 1483. I conti non tornano ed il frutto della tentazione non sarebbe quindi la capsula dello stramonio.  Esiste per la verità anche un’ipotesi asiatica, secondo la quale alcune specie del genere Datura, inclusa D. stramonium, sarebbero originarie dell’Asia Centrale ma la loro diffusione in Europa sarebbe stata comunque troppo scarsa all’epoca per entrare a far parte di un messaggio simbolico, che si regge su una semiotica condivisa tra pittore ed osservatore. E di Datura stramonium si ricordano i fiori bianchi e grandi e se ne usano le foglie o al più i semi e non il frutto, che quindi direbbe poco ai “lettori” del dipinto.

Ambiguità lampanti. Il post da cui ho tratto queste notizie prende le mosse da una notizia botanico-artistica apparsa sul Telegraph a maggio, suggerendo una possibile soluzione ed una conseguente lettura, più corretta dal punto di vista botanico ed altrettanto azzeccata da quello simbolico. Questa interpretazione coinvolge il cocomero asinino (Ecballium elaterium), una pianta spontanea diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo, famosa grazie al sistema “esplosivo” con cui disperde i semi attorno alla pianta madre. Il frutto di questa cucurbitacea è infatti simile ad un piccolo cetriolo e se urtato -anche minimamente e con grazia- durante la fase di massima maturazione, spruzza semi con forza sino a 10 metri di distanza. Nel contesto simbolico costruito da Botticelli la forma, la meccanica fallica e l’evocazione dell’eiaculazione con il suo connesso post-coitale sul viso rilassato di Marte tracciano un simbolismo assai chiaro per i fruitori dell’opera. Non a caso – forse i committenti Botticelli lo sapevano- in spagnolo questa pianta è chiamata “pepinillo del diablo“, un nome che fitta con la posizione nel quadro e con il messaggio erotico inserito dall’autore. E probabilmente non è neppure causuale che ad essere raffigurato sia un frutto staccato dalla pianta, ovvero già esploso, già postcoitale come il Marte sovrastante. Probabilmente proprio per questa sua originalità e per il richiamo ambiguo il cocomero asinino è raffigurato nelle opere d’arte molto più di quanto ci si possa attendere per una pianta priva di applicazioni particolari (il suo uso etnomedico, pur presente, è poco diffuso a causa della tossicità elevata). Il fascino dell’occhiolino malizioso, si sa, non ha confini d’epoca e di culture e la stessa allusività è ripresa anche dai naturalisti del terzo millennio.

Dal quadro al campo. La singolarità del sistema “eiaculatorio” di dispersione dei semi nel cocomero asinino risponde ad un’esigenza ovvia per una pianta ecologicamente aggressiva in habitat aridi: far crescere le piante figlie più lontano possibile dalla pianta madre, al fine di evitare competizioni fratricide per suolo ed acqua e per estendere al massimo il controllo del territorio. Il meccanismo prevede una serie di sistemi ad orologeria e la produzione di un ordigno esplosivo a pressione con annessa canna ad anima liscia. Il sistema di propulsione abbina il turgore cellulare, l’osmosi e una morfologia apposita, combinando aspetti legati alla forma ed alla disposizione dei tessuti con la tipologia e la localizzazione di sostanze chimiche precise. I frutti presentano infatti un pericarpo elastico, formato da diversi strati di cellule in grado si resistere in modo dinamico (mi piego ma non mi spezzo) alla pressione interna sempre crescente. Il tessuto che lo compone è essenzialmente un collenchima capace, grazie ad accumuli di polisaccaridi negli spazi intercellulari, di deformarsi di fronte ad uno stress meccanico durante il rigonfiamento ed abbastanza elastico da restituire spinta durante lo svuotamento esplosivo, come un laccio emostatico pieno d’acqua a ferragosto :-). Al suo interno i semi si trovano immersi in un tessuto parenchimatico formato da cellule molto ampie e piene di mucillagini, che in prossimità della maturazione incorporano per osmosi una grande quantità di acqua, sino a raggiungere una pressione interna prossima a 14 Bar. Le loro pareti sono sottili ed al massimo del turgore risultano tese come corde di violino o meglio, come sottilissimi diaframmi di cristallo: una semplice vibrazione dovuta ad un urto ne determina la rottura a catena, stravolgendo in pochi istanti il precario equilibrio dell’interno del frutto e scaricando la forza della pressione sui tessuti circostanti. In prossimità dell’attaccatura al peduncolo i tessuti del piccolo cetriolo sono invece meno elastici e meno resistenti e formano un “invito alla rottura programmata” che ricorda quello delle fialette in vetro. Per effetto dell’improvviso aumento della pressione all’interno il frutto si stacca quindi dal picciolo mettendo in comunicazione l’interno e l’esterno, con un rilascio del liquido mucillaginoso che viene sparato fuori “a lupara”, anche grazie alla contrazione elastica di rimbalzo delle pareti collenchimatiche. Il frutto ha sempre una posizione inclinata, non casuale: eventuali esperti di balistica potranno confermare che un angolo di uscita tra i 40 ed i 60° assicura la massima gittata ad un corpo in moto parabolico.

Dal campo al laboratorio. Le piante che usano sistemi meccanici (si parla di autocoria) per diffondere i propri semi sono relativamente numerose (Cyclanthera  explodens,  Impatiens parviflorum,  Oxalis corniculata, Canavalia gladiata, Geranium  dissectum,  Acanthus  mollis,  Cardamine  impatiens,  Dorstenia contrayerva, Arceuthobium spp., per citarne alcune) ma solo il nostro frutto botticelliano usa la pressione idrostatica per darsi spinta. Questa unicità è stata fonte di ispirazione anche per qualche applicazione tecnologica, sebbene per ora limitata alla fase puramente sperimentale. Giusto l’anno scorso alcuni ricercatori hanno messo a punto un sistema di nanoparticelle (da intendersi come sistemi di veicolazione di farmaci e non come PM10) in grado di espellere il loro contenuto all’esterno mimando la dinamica di Ecballium elaterium. Il loro lavoro, pubblicato su Soft Matter e liberamente disponibile in pdf, è un elegante esempio di ispirazione naturale applicata alla tecnologia più avanzata. Un problema connesso alla sperimentazione di nanoparticelle nel rilascio di farmaci risiede nella loro limitata stabilità chimico-fisica e nella difficoltà a trovare un grilletto che le faccia scattare a comando, ad aprirsi solo dove e quando vogliamo evitando che il loro prezioso contenuto possa degradarsi o agire dove non deve. Nello specifico, il sistema messso a punto prevede il rilascio controllato di un principio attivo o di un’emulsione racchiusi in una sferetta di idrogel delle dimensioni di pochi nanometri, che funge da navicella. L’ispirazione asinina sta nel sistema di apertura a comando e nell’energia cinetica impressa al contenuto al momento dell’apertura, che ne favorisce la dispersione. In particolare questa sorta di nanoliposomi risulta sensibile non ad una sollecitazione meccanica bensì alla temperatura. La loro caratteristica è quella di essere stabili -più di altre nanoparticelle- a tutte le condizioni con l’eccezione del calore e di rilasciare di colpo il farmaco o il medicamento in esse contenuto solo là dove le condizioni termiche superano un determinato valore. Ad esempio un muscolo, in organo, una parte di corpo esposta ad un riscaldamento anche sotto forma di raggi infrarossi, ultrasuoni o microonde, con l’inuibile vantaggio di rilasciare il principio attivo solo là dove seve agire, massimizzandone gli effetti terapeutici e contenendo quelli collaterali. La loro conformazione inoltre ricorda quella del frutto di Ecballium elaterium in quanto è in grado di “sparare” fuori il contenuto terapeutico ad elevata velocità, vincendo così le forze viscose o la resistenza di alcuni tessuti, aumentando la capacità di penetrazione e diffusione nel bersaglio terapeutico.

Quando si scopre che un frutto asinino lega Botticelli, il sesso, la botanica e l’ultimo grido delle nanotecnologie, come si fa a condannare a morte Shéhérazade?

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L’immagine di Ecballium elaterium viene dal sito del Dipartimento di Botanica dell’Università di Catania