I limoni di Terzigno e la mutagenesi ambientale

La più grande? Le due mele qui a fianco, come appaiono? Se osservate d’istinto sembrano avere dimensioni differenti, con la verde nettamente più grande della rossa. Eppure sono diverse tra loro solo nel colore: la pezzatura è identica. La mela verde è infatti più vicina all’osservatore rispetto a quella rossa e sembra quindi più grande, ma è solo l’effetto di una prospettiva camuffata ad hoc. Messo a giorno del trucco, l’intervistato in genere resta con il proverbiale palmo di naso, perchè si rende conto di come i propri sensi l’abbiano fregato e di non aver considerato l’aiutino della scacchiera, che a ben guardare suggeriva l’inganno ma richiedeva attenzione critica e raziocinio. La percezione che ci restituisce l’istinto davanti a queste mele o ad altri oggetti simili è frutto di un trucco ben noto agli studiosi della percezione e legato ad esperimenti basati sulla “camera di Ames“, una stanza ideata dallo psicologo Adelbert Ames al fine di apparire perfettamente normale a chi la osserva da uno spioncino, ma la cui “normalità” è dovuta in realtà a finzioni ottiche che mettono in crisi il nostro sistema di decodifica. Uno degli scopi di Ames era quello di dimostrare, o meglio istillare il dubbio, che la nostra osservazione primaria non dubitativa ed istintiva corrisponda spesso ad una distorsione. La nostra percezione della realtà come “normale” e “rassicurante” è strettamente legata alla nostra propensione mentale ad aspettarci certe configurazioni, certi comportamenti, certi schemi, certi valori, certe fisionomie, certi stereotipi se l’orizzonte in cui sono inseriti è quello che ci siamo precostruiti mentalmente. In un certo senso, quindi, noi vediamo ciò che vogliamo vedere e la nostra interpretazione della realtà è fortemente condizionata da una serie di fattori soggettivi ed esperienziali che ci possono far cadere in grossi abbagli. Abituati come siamo a vedere stanze quadrate o rettangolari, non prendiamo in considerazione l’ipotesi che un ambiente possa avere forma trapezoidale e deduciamo un risultato in modo precipitoso sulla base di quello che ci illudiamo sia reale, senza verificare con dovuta oggettività.

Il più reale? La camera di Ames mi è venuta in mente riflettendo sul fenomeno dei limoni deformi di Terzigno, della cui errata lettura già altri hanno adeguatamente relazionato:  seppur deformi, i limoni di Terzigno non sono mutazioni dovute ad agenti inquinanti ma il risultato dell’aggressione da parte di un parassita, un fenomeno naturale storicamente noto, ancorchè degno di meraviglia e stupore. Pochi giorni prima del limone, erano state alcune comuni mele a suscitare emozioni simili. In questo caso l’orizzonte di un frutto deforme colto nei pressi di una discarica al centro della cronaca recente è stato sufficiente ad innescare la risposta istintiva ma sbagliata, tipica della camera di Ames: non poteva che essere causa di qualche sostanza mutagena sepolta illecitamente da quelle parti. Un classico esempio di reazione basata su deduzioni emotive e non sull’osservazione critica dei dati reali, sulla ponderazione e sulla verifica.  Dietro la realtà di un’emergenza ambientale grave che può far trascendere gli animi ed offuscare la ragione, è però la comune incapacità a considerare la diversità come un evento naturale ad atterrire, come se la normalizzazione della natura e dei suoi frutti avesse già portato a rendere inconcepibile il diverso, l’anomalo, il non incasellato in schemi che ormai abbiamo reso strettissimi e troppo selettivi, non solo nel vegetale ma anche nel consesso sociale umano. L’unico limone naturale è quello normalizzato dello stereotipo agrumario e l’esistenza di deformazioni naturali non viene nemeno concepita se non nel solco di una mostruosità causata dal maligno. Eppure la natura è tutto meno che omologazione, standardizzazione, serialità, è una macchina che con il diverso si alimenta.

Il più contaminato? Se l’obiettivo è quello di leggere la realtà -e la realtà di Terzigno e Pianura oggi come quella dell’ACNA di Cengio ieri non sono realtà gradevoli e nemmeno nel solco della legalità e dell’etica- le piante però possono dire molto, anche in un contesto aberrante come quello delle discariche in cui per decenni abbiamo spazzato lo sporco dei pavimenti della nostra produzione industriale più scriteriata. A patto però che non si vogliano leggere i dati che le sentinelle vegetali ci possono dare con lo stesso atteggiamento istintivo con cui ci facciamo fregare dalle camere di Ames. Se applicati con metodo razionale esistono diversi sistemi di monitoraggio della genotossicità ambientale (di aria, acqua e suoli) basati su piante i cui risultati possono essere messi a disposizione di cittadini, enti ed organi di informazione se necessario. Le piante, infatti, possono produrre una serie di risposte assai utili per capire se un suolo è contaminato da sostanze in grado di causare mutazioni ed i vegetali sono sistemi di controllo validi per vari motivi. Innanzitutto, i dati che forniscono sulla mutagenesi sono traducibili in informazioni valide anche per l’uomo. Le piante inoltre sono eccellenti sistemi di monitoraggio a lungo termine, potendo essere coltivate facilmente direttamente nel luogo da monitorare e potendo essere esposte in permanenza ai potenziali agenti inquinanti. Non è forse il caso delle discariche, ma in diverse città (inclusa la megalopoli brasiliana di Sao Paulo) sono stati realizzati sistemi di monitoraggio a basso costo del potenziale genotossico impiegando piante epifite come la Tillandsia, che hanno ridottissime esigenze idriche e quindi non necessitano neppure di costi d’innaffio e manutenzione. Potendo crescere sospesa nell’aria (vedi foto sopra), la Tillandsia è perfetta per controllare l’inquinamento atmosferico a base di agenti mutageni come particolati, metalli pesanti ed idrocarburi policiclici aromatici nei pressi di grossi insediamenti industriali, inceneritori ed aree viarie trafficate. Cipolla, orzo, soia, mais, fave e la qui a fianco illustrata Tradescantia sono invece utilizzate ed utilizzabili per valutare gli effetti della contaminazione di suoli ed acque da parte di sostanze mutagene, inclusi ovviamente i reflui ed i fanghi delle lavorazioni industriali più inquinanti. Non aspettatevi misurazioni basate su spighe a due teste e fiori deformi da galleria degli orrori, in questi casi è meglio fare affidamento su misurazioni meno vistose, forse meno adatte ad un giornalismo pruriginoso e scandalistico come quello che ci circonda ovunque ma più attendibili e soprattutto più sensibili. Perchè la mutazione non deve necessariamente essere mostruosa per creare danni irreparabili agli organismi. I test più comuni effettuati sulle cellule di queste piante si chiamano test della cometa (che valuta eventuali mutazioni cromosomiche) e test dei micronuclei (che valuta gli errori durante la mitosi dovuti a mutazioni genetiche) ed in alcuni casi è ormai possibile confrontare il DNA delle piante sane con quello delle piante esposte alle sostanze nocive. In questa sintetica descrizione di due ricercatrici dell’IFOM (Istituto Firc di Oncologia Molecolare) sono riassunti alcuni dei più comuni test di mutagenesi ambientale basati su piante. Il giornalista o l’attivista che avesse bisogno di conferme, smentite o misurazioni a riguardo non ha che l’imbarazzo della scelta: in Italia esistono numerose strutture d’eccellenza in grado di avviare questo tipo di biomonitoraggi a base di piante e quasi tutti gli esempi linkati portano a ricercatori italiani esperti in mutagenesi ambientale. Pochi di loro cadono nel tranello delle camere di Ames, ci giurerei.