Mirabilia – La botanica nascosta nell’arte

Cosa mi aspetto da una mostra, che sia d’arte o di scienza? Di ricevere un quid in cambio del mio tempo e del prezzo del biglietto, di uscirne con qualcosa di inaspettato in tasca, degno di essere raccontato a chi non c’era. Voglio essere stupito, divertirmi e magari imparare, ma anche poter far ruscellare sulla vita quotidiana il tempo dedicato alla visita. Da una mostra mi aspetto che mi connetta a quello che succede mentre passeggio, quando compro i pomodori al supermercato, quando sento parlare di tecnologie in televisione, quando ragiono sulle conseguenze dello smog, quando un mio contatto Facebook parla di agricoltura del futuro o quando ci sono pareri contrastanti su temi scientifici, senza per questo mettermi in testa a forza le idee del curatore. Vorrei che le mostre fossero una sorta di un grande trompe l’oeil, in cui entri con un’idea e ne esci lievemente turbato, perché di quell’idea non sei più così convinto e per farlo mi sono convinto che serva lo zucchero della bellezza e il potere dell’arte, oltre alla chiave inglese della ragione.

Di una mostra non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda” si può dire parafrasando Italo Calvino. Eppure viviamo una dittatura delle immagini e il linguaggio è diventato più visivo che parlato, al punto che la stessa mostra è ridotta a un’immagine e ha perso la capacità di far riflettere. Purtroppo ci si limita allo stupore fine a se stesso e si fatica a costruire un percorso vero. Ciò che vediamo è piatto, non ha profondità, non va oltre la mera esperienza. Vorrei mostre che la bucano, quell’esperienza.

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Una mostra, come un libro, è forse il miglior modo per farsi portare in un luogo estraneo e nuovo, per fare un passo verso risposte grandi e piccole, per sentirci persone migliori. In un certo senso una mostra è l’insieme delle vie che apre nella mente del visitatore e se ben fatta non si limita a una fruizione passiva, che faccia dire «ho visto i girasoli di Van Gogh», ma «guardando i girasoli di Van Gogh ho capito una cosa nuova». Il visitatore dovrebbe uscire avendo imparato a guardare cose che prima trascurava, a collegarle a quelle che già conosce o vive tutti i giorni. Magari persino mettendole in discussione per rifiutarle o ribaltando le proprie convinzioni di partenza, ma sulla base di una scelta consapevole, non approssimativa né condizionata.

Mirabilia è un libro, ma è anche una mostra, in cui uso opere d’arte come portali per parlare di piante, di come funzionano senza di noi, di come noi uomini ci siamo relazionati con loro e di come le stiamo studiando e “immaginando”. Non voglio spiegare perché Lucas Cranach abbia messo un garofano in mano ad Anna Cuspinian o perché a Carlo Crivelli piacciano i cetrioli e neppure raccontare della passione di Bernardino Luini per le aquilegie. Di libri sul simbolismo botanico son piene le librerie. Voglio usare opere nelle quali un particolare o una sfumatura siano punti focali per aprire una finestra insospettata su un tema scientifico, unendo le reciproche meraviglie. Perché, e questa volta èSherlock Holmes che parla: “di solito sono proprio le cose non importanti che offrono il migliore campo di osservazione”.

Per molti secoli tutto questo era riassunto in un vocabolo: mirabilia. Il termine riassumeva più significati: dal meraviglioso della scoperta naturale alle collezioni di reperti esotici; dalle apparizioni fantastiche fino allo stupore per opere dell’ingegno umano che apparivano irraggiungibili, quasi magiche. I mirabilia erano compensazioni per la banalità del quotidiano, opere di un vero e proprio genere letterario che ha anticipato le odierne guide turistiche, in cui un viaggiatore trasportava metaforicamente i lettori con le sue digressioni in un mondo ricco di punti di fuga mentali. I più famosi sono quelli che raccontano le meraviglie di Roma e fanno parte, come dicono quelli bravi, della cosiddetta letteratura periegetica, che secondo l’etimologia greca permette a lettori e visitatori di girare intorno a un’opera per vedere cosa sta oltre. Questa volta, dietro l’angolo, ci sarà una storia botanica.

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Il libro racconta 18 storie scientifiche di piante, sviluppate a partire da altrettante opere d’arte. Leggerlo è come visitare una mostra, in cui contrariamente al solito la guida non racconta la vita dell’autore o il contesto storico né la tecnica pittorica, ma apre una porticina verso un mondo di botanica moderna che forse non avete mai visto.

Ovvero Dürer parla di facilitazioni in ecologia, Warhol del profumo del pomodoro, Schwitters del destino degli erbari, Froment dello strano rapporto tra piante e fiamme, Grünewald di veleni e funghi, Hokusai del terroir del vino e di foodomica, Degas di assenzio, Banksy di piante-aspiratutto, Blossfeldt di fenotipizzazione, Pollaiolo parla di metamorfosi chimiche nelle piante, una vetrata gotica racconta gli strani usi dei muschi e attraverso la Venere di Willendorf si parla degli studi sui grani perenni. E ancora, c’è un’opera darte sulla lune e non lo sapevate: si lega all’epopea delle coltivazioni orbitali russe e americane, così come si può partire da un quadro della rivoluzione industriale per parlare di vertical farming e da una pittura rupestre per raccontare le vicissitudini degli archeobotanici. In mezzo, i Transformers, Bones, l’LSD, il baseball, Torino-Juventus 3-2 del 1983, la mummia Oetzi, Cary Grant e due aiutanti speciali: Vincenzo Guarnieri, che con Frame – Divagazioni scientifiche la scienza la racconta in mille modi e Giovanni Sassu dei Musei di Arte Antica di Ferrara, che l’arte la mastica nella sua relazione col pubblico.

Scriverlo è stata la cosa più divertente che io abbia mai fatto.
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