Perché ho scritto un libro di scienza e di giardini

Se parliamo di piante, mia educazione tecnico-sentimentale è avvenuta durante i lunghi pomeriggi trascorsi col nonno, in quello che prima era semplicemente un giardino di periferia e poi è diventato l’orto di campagna di una famiglia numerosa. In quel giardino ai tempi dell’asilo ho fatto germinare un seme di albicocco, osservandolo crescere giorno per giorno come in un esperimento e lì ho pianto calde lacrime durante le elementari, mentre una grandinata gli strappava le foglie. Per i più romantici: l’albero è ancora lì e vi saluta, ho controllato qualche settimana fa. Nel frattempo, a quella formazione condotta più che altro sui banchi delle consuetudini se ne è affiancata un’altra decisamente più razionale, trascorsa nei laboratori anziché nei campi e fatta di vegetali osservati da così dentro che più non si può, di studi in cui le mani si sporcano poco, perdendo di vista l’interezza delle piante. Una formazione che cercherà anche di abbracciare un panorama con un microscopio, ma che in cambio rivela le regole con cui funziona davvero la natura.

Questo libro prova a riordinare e ricucire le due le educazioni: quella affettiva e un po’ praticona del nonno e quella dimostrabile delle ricerche sperimentali, perché pur dissodando la stessa zolla alimentano due mondi che spesso non si parlano, finendo per fare a cornate anche quando potrebbero aiutarsi a vicenda, se solo si sintonizzassero su un dialogo meno ideologico. Era il nonno a esclamare che le piante son brutte bestie e sono io che provo a spiegare perché quella affermazione è vera alla luce delle ricerche di cui disponiamo nel 2017, aggiungendo che il giardino è un posto importante per la formazione di un uomo. Il giardino è la cucina fuori casa: ai fornelli si sperimenta, si manipola, si sminuzza, si assaggia, si (s)piegano le regole della chimica e della fisica ai nostri piaceri gustativi e in giardino ci si sporcano le mani di terra, si pianta, si annusa, si osserva e si (s)piegano le regole della biologia e dell’ecologia ai nostri piaceri estetici. Cucine e giardini sono laboratori informali e consentono di scoprire cose nuove mescolando teoria e pratica, piacere e fatica, sperimentazione ed emozione, permettendo di raccontare la scienza e i meccanismi della natura secondo l’adagio manzoniano: l’utile per scopo, il vero per oggetto, l’interessante per mezzo.

Non esiste un giardinaggio basato sull’evidenza scientifica, perché non esiste una vera scienza del giardinaggio, quindi davanti a un’aiuola si pesca una volta dall’agronomia o dall’orticoltura, un’altra dall’ecologia e un’altra ancora dall’abitudine e dal sentito dire. Il nonno, uomo con amici in ogni porto, pescava solo dal barattolo del passaparola incontrollato e rilette oggi alcune delle sue azioni erano da mani nei capelli. In giardino infatti si fanno scelte, spesso inconsapevoli o indotte dal lato più commerciale della passione, le cui conseguenze non sono sempre coerenti con le buone intenzioni verso l’ambiente. In molti giardini si annaffia troppo, si fertilizza troppo, si scelgono quasi apposta piante destinate a diventare invasive, si opta per materiali con una fedina penale ecologica nient’affatto specchiata. Gli esiti di queste pratiche sono stati misurati e soppesati dai ricercatori negli ultimi anni, permettendo di fare qualche ragionamento e di suggerire, dati alla mano, pratiche più consone. Ad esempio, nonostante esistano alternative, nel 2012 la sola Inghilterra consumava per il giardinaggio più di 24 milioni di carriole di torba, la cui rimozione dalle torbiere provoca emissioni di gas serra pari a quelle annuali di 300.000 automobili. Il giardino è per fortuna anche è un luogo di relax e di scoperta, in cui apprendere come funzioni la saracinesca che apre un fiore, capire come mai strappare l’edera è un incubo, riflettere se quella pipì che il nonno mi faceva fare nelle aiuole era una buona cosa e suggerire a cosa diavolo servano i licheni, ma è anche effettivamente uno strumento per scienziati. Molti osservano le aiuole negli studi fenologici come fossero termometri, come laboratori per misurare il cambiamento climatico, attingendo a cronologie di fioritura che appassionati giadinieri hanno diligentemente compilato da più di due secoli. Altri invece li scandagliano per studiare come piante, animali e microrganismi possano stringere alleanze, accordi o infliggersi crudelissime perfidie.

Non tutti i giardini sono uguali e su questo nel libro prendo una posizione: non dovendo assicurare rese e guadagni come un campo coltivato, gli spazi verdi che circondano le nostre case dovrebbero essere luoghi ecologici più che agronomici, porte aperte verso l’esterno, ponti per accogliere nel nostro abitato la parte di mondo che ospita una casa. Spesso, per ragioni sociali, culturali (e commerciali) i giardini sono invece plasmati come estensioni dell’arredo domestico, relegando piante e animali a suppellettili decorative che devono forzosamente armonizzarsi con i preconcetti dei proprietari o con esigenze che poco hanno a che fare con la vita. Quando questo avviene, e spesso avviene in barba a molte evidenze sperimentali, il giardinaggio diventa una malattia del benessere come tante altre e non un atto sostenibile come pretendiamo.

I giardini si trasformano invece in splendide palestre di diversità quando si comprende che le piante sono bestie complicate e altre da noi, certo, ma con regole che vanno studiate, capite e accettate nonostante sembrino ostacolare i nostri voleri. Sono bestie senza nazione e senza cultura, che possono in alcuni casi cambiare di genere per adattarsi meglio all’ambiente, che raramente gradiscono essere dissodate e che in alcuni casi detestano essere accarezzate. Il loro studio sta rivelando un mondo di cooperazioni e alleanze talmente spinte da mettere in crisi la definizione stessa di pianta e a rivedere almeno in parte lo stereotipo di quella natura in cui che tu sia gazzella o leone alla mattina devi correre da solo. Si stima che sulla superficie fogliare di tutte le piante del mondo conviva un numero di microbi pari a un miliardo di miliardi di miliardi, superiore al numero di stelle che popolerebbe l’intero universo e si sa per certo, invece, che in un grammo del suolo adeso alle radici di alcune piante vi possono essere mille miliardi di microbi appartenenti a oltre 50000 specie diverse. Tutte bestie che cooperano con la pianta ricevendone una sorta di salario chimico e che ne contribuiscono attivamente al benessere e all’inserimento nella società circostante. E il cui ruolo non può essere trascurato troppo.

Osservare i giardini con questi occhi aiuta anche a capire entro quali limiti razionali ci possiamo aspettare da loro un aiuto concreto per tamponare gli effetti di attività umane, come nel caso dell’inquinamento urbano. In questo campo una comunicazione incompleta rischia di trasformare le politiche sul verde in una sorta di vendita delle indulgenze, che crea alibi per evitare altri interventi ben più efficaci ma poco ambiti. Ad esempio, alcune specie arboree tra cui in particolare le conifere sottraggono effettivamente parte dello smog dall’aria di città e la presenza di piante ad alto fusto permette di contenere le ondate di calore urbano di circa 1°C, ma in tutti i casi l’effetto è localizzato entro un raggio di poche decine di metri e risulta efficace solo quando si ha a che fare con piccoli boschetti e non con piante isolate. Conti alla mano, limitarsi a rinverdire le metropoli non compensa totalmente l’inquinamento emesso dalle attività umane, laddove una riduzione di queste ultime produrrebbe effetti ben maggiori e duraturi.

Quando è uscito Erba Volant mi è capitato spesso di scovarlo in libreria nella sezione dedicata al giardinaggio. Spesso era la scelta di un commesso distratto, ma forse era anche un segnale di una certa confusione di fondo: le piante son roba da ortolani, la scienza sta da un’altra parte. E infatti di libri sui giardini se ne contano a centinaia, molti stupendi; eppure tolti quelli a matrice storico-estetica, quelli manualistici e quelli legati ai sentimenti connessi alla cura delle piante, pochi raccontano i giardini aggiungendo la prospettiva di chi fa ricerca con le piante. Brutte bestie non spiega come potare le rose, non racconta come fare se il vostro lime appena comprato perde tutte le foglie e non vi aiuterà ad accudire le begonie, ma se proprio vi devo dire cos’è, dirò che è un libro di scienza delle piccole cose.