Una sera di molti anni fa, su un’isola greca, ho bevuto una birra con un signore belga completamente matto. Ma matto-matto, oltre ogni dubbio basagliano. Non ha fatto altro, mentre tentavo invano di svicolare dalla sua morsa verbale con la destrezza sociale di un bradipo zoppo, che raccontarmi della sua grande, irrefrenabile e sconfinata passione per i muschi con un afflato pari solo al suo simmetrico disprezzo per la tecnologia. Venti minuti di vibrante elegia briofitica, inframezzata da invettive contro telefonini, computer, strumenti, apparecchiature di ogni ordine e grado, dalla macchina di Anticitera fino al navigatore satellitare passando per i sincrotroni. A dirla tutta ci ho messo più di un attimo per dare un contorno preciso all’oggetto di quell’entusiasmo feticista, perché di primo acchito la pronuncia strascicata mi aveva persuaso che stesse parlando di mussels e non di mosses, ovvero di cozze e non di muschi.
A suo dire e al contrario delle diavolerie moderne, queste piantine minuscole rappresentano il non plus ultra per chi ambisce a un passatempo elusivo, esclusivo e leale: nessuno le distingue anche se prosperano ovunque, per osservarle tocca ravanare cinghialeschamente il suolo armati di lente, hanno un ciclo vitale che non prevede gli stucchevoli fiori e infine la gente comune se ne ricorda solo a dicembre, quando parte la caccia per circondare culla, bue e asinello di un improbabile prato verde, dove nascono speranze e bambinelli. I muschi, insomma, sarebbero una vera cornucopia di emozioni, una fucina di frisson mille volte superiore a quel “plestic verld” vacanziero che a suo dire offriva solo birre scadenti, luci stroboscopiche e rimbombo di umanità berciante. Purtroppo, raccontava stizzito, era prigioniero di quell’odiosa isola greca inaridita dal sole e dal meltemi, un luogo pressoché sprovvisto del suo vegetale del cuore. Agitando la lattina di birra spiegava al mondo (cioè a me) che lui era lì solo perché quella megera della moglie lo aveva costretto col ricatto ma, per il tallo di mille briofite, fosse stato libero di scegliere avrebbe razzolato le ferie con gli amici scialafili in qualche sottobosco, a caccia di muschi invisibili ai più.
Ricordo di averlo ascoltato in silenzio a lungo, pensando all’imperscrutabilità di certi coniugi e accompagnando l’eloquio col tipico cenno del capo e delle sopracciglia, vago ma solidale, che si riserva ai disturbati durante i passaggi più salienti dei loro deliri. Fino a quando, scolato l’ultimo goccio di birra, gli comunicai che si era fatta una certa, rientrando spedito e sollevato nei ranghi dell’umanità stroboscopica e rimbombante, mai apparsa così morbida e accogliente. Con la consueta destrezza sociale del bradipo zoppo di cui sopra e con un jet lag di un decennio buono, oggi ho messo a fuoco un punto su cui, anche solo per pura cortesia missionaria, avrei potuto imbastire un minimo sindacale di conversazione. Munitevi di birra e andiamo dal Dodecanneso a Portland, Oregon.
Anche oggi abbiamo sforato, che si fa? Portland, Oregon, condivide con l’Egeo poco più che qualche immigrato: greci alla conquista del West armati di gyros che si lamentano del clima e qualche anziano boscaiolo volato in senso opposto per scaldare le ossa e respirare aria di mare, grazie a quel pacchetto giusto di azioni comprate ai tempi di Reagan. Con l’eccezione di Demetrios Gatziolis, greco d’origine ma ricercatore tra le foreste della West Coast, nessuna di queste categorie sa che nella ridente città di Portland, Oregon, famosa per il profumo del luppolo (la Willamette Valley è un luogo cult per il mondo delle birre artigianali) e per quello delle rose (ogni anno ne fanno una splendida parata), nel 2013 si è vissuto uno di quei piccoli ma non trascurabili grattacapi tipici del mondo urbanizzato. Dopo aver legiferato una serie di limiti stringenti sulla qualità dell’aria, negli uffici del Department of Environmental Quality (DEQ) di Portland, Oregon hanno iniziato ad accumularsi numeri poco lusinghieri. Per alcuni metalli pesanti come cadmio e arsenico, assai meno salubri dell’aroma di luppolo e del profumo delle rose, i valori respirati dai cittadini erano regolarmente da tre a sei volte oltre le soglie. Me li vedo, il tecnico del DEQ di Portland, Oregon e Demetrios Gatziolis dell’U.S. Forest Service che si scambiano opinioni sulla faccenda con aria perplessa davanti a una bella tazza di beverone fumante al gusto di caffè.
“Anche oggi abbiamo sforato, che si fa? Lo avvisi tu l’ufficio del sindaco? Lo sai che ci tiene alla classifica delle città più vivibili al mondo e questa faccenda è un casino. L’anno scorso eravamo al quarantesimo posto e ci vuole fare campagna elettorale.”
“Tanto so già la risposta: scoprite da dove vengono arsenico e cadmio e poi vediamo. Mica possiamo paralizzare la città con notizie vaghe.”
“Maledizione, la fanno semplice loro. Come pensano che si possa fare! Abbiamo solo una centralina fissa e due mobili, da spostare su una superficie di oltre 200 chilometri quadrati. Per trovare la sorgente ci vorrà una vita!”
“E se nel frattempo qualche giornale annusa la pista dell’inquinamento siamo fritti. Noi e il sindaco.”
“Esatto. Dobbiamo inventarci qualcosa. Idee?”
Sorso di caffè. Sguardo fuori dalla finestra. Sorso di caffè. Sguardo verso il poster ingiallito dei Trailblazers del 1977 che langue sognando nuove glorie. Sorso di caffè. Grattatina alla camicia di flanella a scacchi, all’altezza della spalla. Sorso di caffè.
“I muschi. Proviamo coi muschi. In Europa li usano da un sacco di tempo per monitorare gli inquinanti nell’aria. Lo chiamano biomonitoraggio.”
“Eh, non ci resta molto altro. Speriamo bene.”
Dev’essere sicuramente iniziata così, questa faccenda che ora è al tempo stesso un articolo scientifico, un modello di lavoro, una bella pila di dati di pubblico dominio e per di più un esempio di amorevole connubio tra piante e tecnologia. In altre parole, un mix capace di mandare in cortocircuito amori e idiosincrasie del bizzarro signore belga schifato dall’Egeo e in cui, ironia della sorte, un protagonista è per giunta mezzo greco.
I vantaggi di una pelle sottile. Come il mio eccentrico compagno di bevute, anche Demetrios e il suo collega di Portland, Oregon conoscono alcune cosette utili sui muschi. Ad esempio, che possono aiutare a monitorare la qualità dell’aria grazie a una combinazione di fattori biologici legati alla parte di mondo in cui l’evoluzione li ha fatti accomodare. Intanto, crescono lentamente e accumulano varie sostanze nel corso del tempo, poi sono privi di quella pellicola cerosa che avvolge e ipermeabilizza le parti verdi delle piante superiori, non hanno vere proprie radici e la loro epidermide molto sottile assorbe facilmente ioni metallici. Tendono quindi a inglobare uniformemente alcuni nutrienti non dal suolo o dal supporto su cui vegetano, ma direttamente dall’aria o dalle sostanze disciolte nella pioggia e mentre le altre piante fanno spesa nel terreno attraverso le radici, loro si riforniscono dal pulviscolo atmosferico con le parti verdi. Tra i composti così assorbiti ci sono anche i metalli pesanti come il cadmio e l’arsenico e sostanze organiche come gli idrocarburi policiclici aromatici prodotti da un gran numero di attività umane. Ovviamente non tutti i muschi prediligono in egual misura gli stessi inquinanti: alcuni assorbono meglio un metallo, altri ne eliminano un po’ dopo averlo assorbito, altri ancora sono diversamente efficienti in funzione del luogo in cui crescono, mostrando sensibilità diverse in base all’umidità dell’aria o a seconda che si trovino in città o in campagna. Non tutti i muschi sono quindi ugualmente adatti al monitoraggio ambientale, vuoi perché troppo poco diffusi, vuoi perché presentano una maggiore affinità per il piombo e una minore per il mercurio, vuoi perché ne assorbono una minima parte anche attraverso i loro rizoidi, che non sono vere e proprie radici ma qualcosa captano lo stesso. Insomma, il solito fardello inevitabile della diversità naturale, bello da vedere ed eccitante da raccontare, ma scomodo come un armadio di vestiti scombinati quando la natura la vogliamo invece usare in modo razionale. Nel tempo e con molte prove, vari ricercatori hanno comunque individuato muschi abbastanza bravini nell’agire più o meno come i foglietti acchiappacolore che si mettono in lavatrice, ma stavolta specifici per metalli pesanti e altri inquinanti e non per il blu ceduto dal calzino sbagliato. Tra questi Pleurozium schreberi, Hylocomium splendens e varie specie dei generi Sphagnum e Hypnum, che soprattutto in Europa sono diventati protagonisti in monitoraggi di vario tipo e che hanno dato l’idea di provarci anche a Portland, Oregon.
Serve un muschio alfa. Pure il lamento sul numero delle centraline durante la pausa caffè ha un significato. Soprattutto per ragioni economiche, le reti per il monitoraggio della qualità dell’aria che respiriamo hanno maglie troppo larghe, che correlano male misure e territorio. Le centraline costano molto e il loro numero è in genere insufficiente a mappare a dovere tutta una città o una regione; di conseguenza forniscono con grande precisione dati locali, ma si commettono grossi errori nel dedurre la reale presenza di inquinanti nel resto dell’area controllata. Certo, quelle mobili possono essere spostate, ma per ottenere un vero legame tra misura e territorio devono restare in un luogo per un certo tempo e alla fine il risultato non è un’istantanea reale, poiché tra la prima misura in un quartiere e l’ultima in periferia possono essere passati mesi se non anni. Un’altra conseguenza è che queste reti lasche rendono quasi impossibile scovare le fonti delle emissioni, perché obbligano a un lavoro investigativo lungo e certosino non compatibile con le urgenze e coi costi. Quello che possono offrire i muschi è invece una combinazione tra il loro potere da acchiappainquinanti e l’onnipresenza in città, sugli alberi, dietro ai muretti, sui sassi, isolato per isolato e strada per strada.
Per i tecnici dell’U.S. Forest Service di Portland, Oregon la prima cosa da scegliere era quindi il tipo di muschio con cui fotografare la presenza di cadmio e arsenico in città. Ovviamente era necessario scegliere una specie diffusa in modo capillare, evitando di campionare organismi tra loro diversi e capace di sopravvivere anche quando l’ambiente è sfavorevole, ad esempio nelle aree più inquinate. Infine doveva trattarsi di un muschio facile da riconoscere e non sensibile al fascino della convivenza con altre briofite, anzi abbastanza competitivo da crescere da solo, vigorosamente. Un muschio alfa, quindi. E il muschio alfa per Portland, Oregon è Orthotrichum lyelli, che soddisfa tutti questi requisiti essendo uno dei più frequenti sugli alberi della zona. Un’altra scelta è stata quella di campionare solo porzioni giovani di pianta a oltre 3 metri di altezza, per limitare sia la contaminazione dovuta al pulviscolo terroso proveniente dal suolo che per raccogliere indicazioni relative agli ultimi 2-3 anni, evitando così l’effetto accumulo presente nelle parti più legnose, che essendo più vecchie contengono sostanze assorbite nel passato.
La radiografia del cadmio. A Portland, Oregon non sono scesi dalla montagna del sapone e dispongono da tempo di due mappe. Una, costruita con le centraline mobili, che illustra la distribuzione stimata dei metalli pesanti in città e una che descrive la posizione delle aziende autorizzate a emettere cadmio e altri inquinanti, che vengono periodicamente controllate con le centraline mobili. Sapendo che viene tenuta d’occhio dalle autorità, nessuna di queste fabbriche emette fuori norma, a conferma dell’importanza di una rete mirata di controllo e verifica. Il problema sta piuttosto in eventuali strutture prive di autorizzazione, che vanno stanate come un focolaio tumorale e possibilmente con radiografie ad hoc. Scelta la specie da raccogliere, i tecnici hanno quindi preso una mappa della città e hanno fatto circa 350 crocette in luoghi equidistanti tra loro, formando un reticolo e istruendo un manipolo di studenti a campionare Orthotrichum lyelli nei dintorni di ciascun punto. Poi hanno preso i loro ritagli di muschio e si sono rivolti alla tecnologia che così poco piaceva al signore belga, misurando punto per punto non solo quanto arsenico e quanto cadmio era stato accumulato, ma anche molti altri metalli pesanti e altri inquinanti. Ottenuti i numeri li hanno messi sulla mappa di Portland, Oregon ottenendo una nuova distribuzione per il cadmio, non più stimata ma basata su dati capillari e reali.
Anche qui, me li vedo di nuovo i nostri amici di Portland, Oregon col beverone di caffè davanti al poster ingiallito dei Trailblazers di Bill Walton, sotto al quale hanno appuntato le stampate delle due mappe, quella stimata dalle centraline e quella tracciata misurando i muschi.

Da: Donovan, G. H., Jovan, S. E., Gatziolis, D., Burstyn, I., Michael, Y. L., Amacher, M. C., & Monleon, V. J. (2016). Using an epiphytic moss to identify previously unknown sources of atmospheric cadmium pollution. Science of the Total Environment, 559, 84-93.
“Guarda che differenza con la mappa stimata, quella di sinistra!”
“Bingo. Hai visto quelle due zone rosse? Cosa c’è li? Nella mappa stimata quelle aree erano verdi, senza inquinanti“.
“Sono già andato a controllare su Google Maps: ci sono due aziende che fanno vetro temperato. Non chiedere, ho già controllato. Non sono nella lista degli autorizzati a emettere arsenico e cadmio”
“Avviso l’ufficio del sindaco o mandiamo prima in zona la centralina mobile per le misure definitive?”
“Aspetta e butta via il caffè, prima ci siamo meritati un bel paio di birre”
Bevute le birre, avvisato l’ufficio del sindaco e piazzata la centralina mobile davanti alle fabbriche incriminate, nelle aree residenziali prossime a quei punti si sono misurati tenori di cadmio e arsenico atmosferici rispettivamente 49 e 160 volte oltre la norma. Con questi valori strumentali, e non con quelli dei muschi, è stato possibile premere per adeguare la normativa locale, che non permetteva alle istituzioni di intervenire e quindi negoziare con le imprese un adeguamento dei sistemi di emissione. Sistemata la legge è stato infatti possibile negoziare l’uso di filtri e anche l’eliminazione dalle lavorazioni di cadmio (usato per i vetri di colore rosso-arancio) e arsenico (usato per impedire la formazione di bolle nel vetro), sino a far rientrare i valori nella norma. Un’analisi attenta della nuova mappa ha anche permesso di scoprire l’effetto dei venti che passano la frontiera con la vicina Vancouver, non contemplato in precedenza e capace di condizionare la qualità dell’aria in alcune zone.
Gli autori di questi studi hanno optato anche per un’altra scelta istruttiva: tutti i dati della loro mappatura sono pubblici e possono essere sovrapposti ad altre mappe da chiunque lo voglia. Ad esempio, un’entità pubblica o privata può verificare quando e come vuole se la presenza nell’aria di metalli pesanti come cromo e cobalto (anche loro fuori norma in alcune zone di Portland, Oregon) può essere collegata a qualche attività umana fino ad ora ignota.
La misura porta a porta. Per quanto comuni, i muschi non sono abbastanza frequenti in tutte le città o non sempre si può trovare un muschio alfa adatto. Come molte metropoli americane anche Portland, Oregon vanta un’urbanistica ricca di giardini privati, di strade alberate e di parchi diffusi, con una densità abitativa bassa che permette campionamenti capillari. Altrove l’assenza di alberature e zone verdi può invece complicare l’impresa. Esistono per fortuna alternative, che offrono qualche vantaggio ulteriore. Si tratta di sacchetti di nylon contenenti muschi precoltivati e identici tra loro, da appendere a 3-4 metri d’altezza per uno o due mesi esattamente nelle zone desiderate, limitando il rischio di campionamenti errati. Oltre a permettere la migliore distribuzione possibile, queste moss-bags prima di essere piazzate vengono coltivate in ambienti totalmente privi di inquinanti e quindi permettono una cosa che il muschio selvaggio non garantisce: determinare l’esposizione ai metalli pesanti o agli idrocarbuti in un preciso lasso di tempo. Due anni fa, ad esempio, la città di Belgrado è stata mappata come Portland, Oregon, usando 153 sacchetti di questo tipo, scoprendo che ampie zone della città erano insufficientemente monitorate dalle centraline. Analogamente in Campania le moss bags hanno permesso di valutare l’impatto del traffico e di definire quali metalli presenti nell’aria sono dovuti all’urbanizzazione, quali all’agricoltura e quali a fattori ambientali. Tuttavia, sia i sacchetti che le mappature come quella di Portland, Oregon non possono funzionare da soli.

Da: Lequy, E., Saby, N. P., Ilyin, I., Bourin, A., Sauvage, S., & Leblond, S. (2017). Spatial analysis of trace elements in a moss bio-monitoring data over France by accounting for source, protocol and environmental parameters. Science of The Total Environment, 590, 602-610.
Il senso della misura. L’esperienza di Portland, Oregon è elegante ed efficace, ma non è isolata e l’Europa vanta una grande tradizione a riguardo. Dal 1990 venti nazioni del vecchio continente (la Norvegia addirittura dal 1977) monitorano ogni 5 anni la qualità dell’aria secondo lo stesso principio, prelevando e analizzando muschi ben precisi in diverse zone. In Francia ad esempio la mappatura del 2011 ha permesso di individuare le regioni più o meno esposte ai principali metalli pesanti nell’aria respirabile, evidenziando dove e per quale motivo ha più senso intervenire con controlli e norme mirate. Questa esperienza, che coinvolge più ricercatori e un gran numero di inquinanti, ha insegnato varie cose che vanno tenute in conto, limiti inclusi. Innanzitutto, ha evidenziato che i muschi non offrono una quantificazione precisa per tutti gli inquinanti come la strumentazione tecnologica messa a punto dall’uomo e che l’attuale assenza di protocolli ufficiali e condivisi rende ostica un’interpretazione chiara dei dati. O per dirla con le parole di Demetrios Gantzios, i muschi “non forniscono informazioni certe sulla qualità dell’aria, ma aiutano a trovare gli inquinatori e a intervenire per migliorare la situazione“. In cambio, infatti, i muschi permettono mappature molto più estese e capillari grazie alle quali, con un costo più contenuto, si possono individuare le località più critiche o luoghi di emissione altrimenti introvabili, proprio come a Portland, Oregon. I norvegesi, ad esempio, hanno scoperto che la recente apertura di fonderie in Russia sta avendo un impatto notevole sulla qualità dell’aria nelle zone di confine, mentre nel complesso in Europa occidentale le misure correttive e i controlli più intensi hanno permesso, stando ai muschi, di dimezzare negli ultimi 30 anni la presenza di quasi tutti i metalli pesanti nell’aria. I muschi sono quindi utili, ma rilevanti solo come strumento che integra i sistemi basati su centraline e tranne che per piombo e cadmio la loro risposta non è quasi mai quantitativa.
Ovvero i muschi vanno bene per fare una mappa della distribuzione e per descrivere un andamento nel tempo, consentendo di “avere un’idea” del contenuto, ma non restituiscono un numero inoppugnabile quando si va dall’inquinatore a mostrare il conto né per avere dei numeri precisi da usare in tribunale o da confrontare coi limiti ufficiali, per i quali serve l’analisi strumentale delle centraline tecnologiche. Che è esattamente quello che hanno fatto i tecnici del comune di Portland, Oregon quando hanno importato il loro esperimento-indagine: prima trovare l’ago nel pagliaio con i muschi, poi studiare e misurare l’ago con le centraline mobili, infine internire su norme e inquinatori per rimediare. E questa è per certi versi la cosa più interessante della storia, perché abituati come siamo a narrative come quella del mio estemporaneo e bizzarro compagno di bevuta, che mettono in conflitto i sistemi creati dall’uomo e quelli dedotti dalla natura, scoprire che i due approcci non sono in contrasto tra loro ma soddisfano le nostre esigenze solo se vengono integrati con criterio, è istruttivo come minimo.
Chissà com’è andato a finire il matrimonio del signore belga, coi suoi conflitti tra le passioni intime del sottobosco e le vacanze chiassose alla luce del sole. E chissà se l’avrei convinto della vantaggiosa collaborazione tra tecnologia e natura con l’esempio di Portland, Oregon. Voi però pensateci, prima di sedere al mio fianco mentre bevo una birra. Pensateci bene.
Letture serie.
- Donovan, G. H., Jovan, S. E., Gatziolis, D., Burstyn, I., Michael, Y. L., Amacher, M. C., & Monleon, V. J. (2016). Using an epiphytic moss to identify previously unknown sources of atmospheric cadmium pollution. Science of the Total Environment, 559, 84-93.
- Harmens, H., Norris, D., Mills, G., and the participants of the moss survey (2013). Heavy metals and nitrogen in mosses: spatial patterns in 2010/2011 and long-term temporal trends in Europe. ICP Vegetation Programme Coordination Centre, Centre for Ecology and Hydrology, Bangor, UK, 63 pp.
- Harmens, H., Norris, D.A., Steinnes, E., et al. 2010. Mosses as biomonitors of atmospheric heavy metal deposition: Spatial patterns and temporal trends in Europe. Environ. Pollut. 158, 3144–3156.
- Ares, A., Aboal, J. R., Carballeira, A., Giordano, S., Adamo, P., & Fernández, J. A. (2012). Moss bag biomonitoring: a methodological review. Science of the Total Environment, 432, 143-158.
- Adamo, P., Giordano, S., Vingiani, S., Cobianchi, R. C., & Violante, P. (2003). Trace element accumulation by moss and lichen exposed in bags in the city of Naples (Italy). Environmental pollution, 122(1), 91-103.
- Lequy, E., Saby, N. P., Ilyin, I., Bourin, A., Sauvage, S., & Leblond, S. (2017). Spatial analysis of trace elements in a moss bio-monitoring data over France by accounting for source, protocol and environmental parameters. Science of The Total Environment, 590, 602-610.
- Capozzi, F., Giordano, S., Di Palma, A., Spagnuolo, V., De Nicola, F., & Adamo, P. (2016). Biomonitoring of atmospheric pollution by moss bags: Discriminating urban-rural structure in a fragmented landscape. Chemosphere, 149, 211-218.
Grazie. Interessante e istruttivo
[…] Come scrive Renato Bruni nel suo terzo e bellissimo libro Mirabilia , si possono utilizzare anche i muschi per testare la qualità dell’aria e dell’acqua per quanto riguarda principalmente i metalli pesanti. Lavoro fattibile ed estremamente semplice con la collaborazione dei cittadini, che fanno da baby sitter e con la supervisione di un laboratorio di ricerca accreditato. Anche a livello europeo ci sono stati studi e finanziamenti in merito e ce lo spiega bene, sempre Renato Bruni, in un altro punto del suo blog. […]