Tre verticale, undici lettere. “Piante selvatiche commestibili, usate in epoca di carestia o di scarsa disponibilità alimentare“. Al Bartezzaghi o al Ghilardi questa definizione da cruciverba piacerebbe un sacco, perchè per molti solutori anche più che abili sarebbe difficile dare all’istante la definizione corretta: alimurgiche. Alimentari d’urgenza. Vengono così chiamate quelle piante spontanee a cui un tempo si ricorreva per supplementare ed integrare la dieta quando l’orto, il campo, il mercato o il portafogli non garantivano cibo a sufficienza. Alcune di esse, come ad esempio la rucola o la comune insalata hanno alla lunga ottenuto una promozione tra le aiuole o sui banchi ortofrutta e si può osare dicendo che tutto l’armamentario verzuriero dell’uomo ha un trascorso alimurgico più o meno remoto. Quando bacche e radici erano capisaldi della dieta e ci saziavamo in primis con i wild relatives, ovvero con i progenitori selvatici delle piante poi addomesticate, coltivate e selezionate per affinare le caratteristiche considerate più meritevoli ed utili.
In alcune nazioni, anzi in molte aree del mondo in cui l’emergenza alimentare è purtroppo una triste normalità, l’alimentazione di sussistenza è tuttora un capitolo fondamentale della nutrizione umana e le piante spontanee rappresentano una voce importante nella dieta. In queste zone le alimurgiche non sono forse neppure definibili come tali, dato che sono parte costante e non occasionale della dieta e vengono studiate soprattutto per individuare quali piante potrebbero garantire un migliore accesso al cibo se coltivate. Nelle nazioni occidentali invece la riscoperta delle alimurgiche è un fenomeno principalmente culturale e non di necessità. Passa per due grossolane direttrici: la riscoperta della vita selvatica nell’America settentrionale e la riscoperta delle tradizioni gastronomiche in Europa. In ambo i casi si ha a che fare con raccolte di informazioni botanico-sistematiche relative al riconoscimento di queste piante spontanee, sulle parti usate, sul loro gusto e sulle loro proprietà alimentari-nutrizionali e quasi sempre queste indicazioni tipicamente etnobotaniche hanno un forte legame col territorio. I repertori di piante alimurgiche disponibili sono vari e possono essere suddivisi in due categorie tematiche coerenti con la geografia citata sopra: i testi da suvivor nordamericano e quelli da gastronauta europeo. Quelli nordamericani sono declinati sul tema della sopravvivenza in boschi, foreste e praterie e trattano il ritorno all’alimentazione originaria, all’autarchia alimentare, magari come riflesso indiretto della passione americana per l’esplorazione e la conquista, speziata con ataviche paure da guerra fredda, quando addirittura il governo produceva testi per sopravvivere into the wild a seguito di catastrofi belliche. Nella contemporaneità, quando i timori si sono avviluppati nella sfiducia per la tecnologia e nel degrado urbano, l’interesse per le piante spontanee commestibili ha coinvolto anche le aree metropolitane, al punto che esiste la sottodisciplina del tutto postmoderna dell’Urban foraging, raccontata in questo bel documentario ambientato nella gelida, degradata Detroit. Che quello nordamericano risponda ad un trend lo testimonia poi l’esistenza di forum e tutorial su raccolte silvestri e consumo di alimurgiche, con tanto di etiquette da rispettare.
In Europa, nel Mediterraneo ed in particolare in Italia sulle alimurgiche si lavora diversamente o quantomeno si mira soprattutto a preservare il sapere tradizionale, proponendone i contenuti come un’alternativa gastronomica e culturale di gusti e sapori legati alla tradizione contadina, più che rinnovarne il compito di cibo d’emergenza. Proprio in questo preciso solco si collocano i numerosi lavori di Andrea Pieroni in Garfagnana, Alta Toscana, Piemonte e Lucania. Fedele ad una tradizione di divulgazione botanica online, il Dipartimento di Botanica dell’Università di Catania presenta poi un database monografico sulle piante spontanee commestibili della Trinacria che va a complementare una pubblicazione di pochi anni fa sul medesimo territorio. Ancora più recente e divulgativa è una semplice ed accessibile brochure edita da Veneto Agricoltura sulle alimurgiche trivenete, in cui si toccano anche due elementi importanti in questo contesto: la tossicità di alcune specie ed i rischi connessi alla loro raccolta spontanea, collegata al possibile eccesso di nitrati ed ossalati oltre che alla loro esposizione ad agenti inquinanti (raccogliere tarassaco sul ciglio della statale non è mai una buona idea).
Allo studio etnobotanico delle alimurgiche ben si attaglia una esortazione di Walter Benjamin: “In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla”. E’ una frase che ha una sua componente retorica e più di un briciolo di romanticismo, ma sottende anche un elemento scientificamente probante: analizzare razionalmente i possibili vantaggi determinati dalle scelte passate può servire a comprendere meccanismi allora inconsapevoli e spiegare i difetti delle scelte attuali. Ad esempio, all’interesse culinario per le piante spontanee commestibili si sovrappone in epoca recente un interesse più strettamente nutrizionale, sul versante salutistico. Talvolta le indagini epidemiologiche suggeriscono la possibilità di trovare una maggiore longevità o una minore incidenza di alcune patologie in quelle aree in cui l’alimentazione tradizionale ha mantenuto l’uso di questo tipo di alimenti. Di questo si parlerà nei prossimi post.
chapeau! e “vado a diffondere” erano per questo post, ho per errore scritto tutto nel commento del post precedente, chiedo venia. Che gli avi di settefonti mi puniscano!
Argomento affascinante questo, stavo proprio pensando di buttare giù un post, adesso lo faccio apposta per linkarti 🙂
Parlando dei rischi di tossicità nelle spedizioni alimurgiche, vale la pena ricordare che non sono limitate ai cittadini sprovveduti che si gettano sulle pianticine selvatiche per ur ritorno al wilderness. Ricordo un caso raccontato da Grivetti, mi pare, dove le donne di una famiglia africana, emigrata in una regione diversa da quella di origine a causa di conflitti armati, andarono alla ricerca di edible weeds e si intossicarono per aver scelto dei qui-pro-quo tossici. Il che suggerisce anche delle discussioni sulle differenze tra folk taxonomies e classificazioni scientifiche. D’altro canto Grivetti, nello stesso testo, ricordava come nella sua prima ricerca begli anni 70 si rese conto che i Tswana del Kalahari non avevano sofferto durante una carestia del tutto paragonabile a quella che nel Sahel aveva causato 2 milioni di morti, e conclude che la maggior permanenza delle competenze sulle piante alimurgiche aveva fatto la differenza.
Bye
Applausi!
Eh sì, argomento affascinante per vari motivi, non ultimo il fatto che saper riconoscere gli erbi e riuscire ad alimentarsene potenzialmente va anche a scardinare alcuni importanti meccanismi, sia psicologici (deresponsabilizzazione, delega), che economici.
In italiano, segnalo un classico di Oreste Mattirolo, “Phytoalimurgia pedemontana : come alimentarsi con le piante selvatiche” (1918), ristampato in tempi recenti. Ne ha parlato anche il Selvatico qui: http://selvatici.wordpress.com/2010/03/11/phytoallimurgia-pedemontana/
Possiedo poi un volume da alcuni osannato (Atlante dei prodotti tipici : le erbe / INSOR, Istituto nazionale di Sociologia rurale ; a cura di Graziella Picchi, Andrea Pieroni ; introduzione di Corrado Barberis. Roma : RAI-ERI : AGRA, 2005), che però ha la non piccola pecca della completa assenza di illustrazioni/disegni/foto.
Aspetto trepidante il seguito 🙂
ecco!, le parole giuste per descrivere quello che mi ha insegnato mia nonna.
Le cronache della mia città ricordano ancora un’intera comitiva finita all’ospedale per aver mangiato in un ristorante una salsina al…mughetto, scambiato per aglio orsino.
Bel post, tante informazioni, grazie, cat (gastronauta convinto)
Sui problemi (ed in alcuni casi sulle incongruenze apparenti, nel senso che in alcune ricette tradizionali sono incluse anche piante considerate tossiche) della tossicità di alcune piante e sui problemi nel loro riconoscimento (la “sindrome del Boletus satanas“) volevo fare una puntata della serie, ma ormai me l’avete spoilerata. 🙂
A me la cosa che piace dell’argomento è che si presta al laboratorio epistemologico. Capita spesso con le piante, di mettere assieme cocktails shakerati di discipline, ma in questo caso secondo me si raggiunge il massimo. L’altra cosa è che con la fascinazione delle piante spontanee, dell’alimentazione di nicchia, dell’evocazione emozionale si rifilano più cose, dal riconoscimento botanico all’antropologia fino alla nutrizione. Insomma, didatticamente sono un eccipiente eccezionale 🙂
Il seguito è in lavorazione. Con calma, che poi arrivano i soliti a brontolare perchè posto troppo e con troppa frequenza ;-P
Gli avi di Settefonti erano di una genìa tra le più benevole mai viste, puoi stare serena!
Mi è difficile immaginarmi di ritorno da una passeggiata nel verde senza almeno un pugno di qualche cosa di commestibile rubato alla terra. Qualche volta mi sento un po’ predatoria e in colpa, ma come si fa a resistere a questa stagione per esempio ai fiori di robinia, a quelli di sambucco, ai semi di olmo, alle cime di ortica…. a proposito prima che piova ancora devo andare a raccoglierla, altrimenti domani niente spetzle di ortiche
[…] il Nepal (leggi qui e qui le cronache di Enrico Crespi), spintonato da un post di Meristemi (eccolo qui) sulla fitoalimurgia, prendo l’occasione per scrivere nuovamente di Chepang, un gruppo etnico di […]
Grazie 🙂
Segnalatoti in nostro piccolo blog… ed in buona compagnia http://gruppo_lettura.blog.tiscali.it/2010/05/17/meristemi-e-silphion-giam/
Se la sig.ra equipaje, poi, si decidesse a postare più spesso i suoi “pungoli”… 🙂
Ciao
Si impara sempre qualcosa ! 🙂
da agricoltore da generazioni del’ agro romano fin da piccolo sono stato messo in guardia sull’ esistenza di famigerati ‘raccoglitore alimurgici’ che potevano entrare in azienda , senza permesso, spesso procurando danni : i CICORIARI .
Spesso erano gruppi di 4 /5 individui , quasi sempre donne corpulente , dotate di sacchi di juta e coltellacci appuntiti e discutere con loro non era una passeggiata .
In tempi di guerra , mi raccontavano, che la raccolta di erbe e prodotti spontanei era molto diffusa , la fame si faceva sentire e a parte gli orti di guerra , la campagna offriva risorse spontanee diffuse .
Oggi , nella mia zona , abbiamo asparagiari , qualche sporadico cicoriaro , fungaroli , etc etc piu’ per diletto che per vera necessita’ .
La prox volta che ne incontro uno chiedero’ se e’ un raccoglitore alimurgico , sara’ mia cura postare la risposta ! 🙂
@ Biola’ – Cicoriari nel continente e cavuliciddari in Sicilia indicano già col loro nome la strada botanica delle due famiglie più frequentemente raccolte: Composite/Asteracee i primi e Brassicacee i secondi. Non è un caso se nel passaggio da raccolta a coltivazione due tra le specie che l’uomo ha più coltivato ed affinato modificandone anche drasticamente nei secoli forma, gusto, portamento e quant’altro sono Cichorium intybus, Lactuca sativa (radicchi, indivie, insalate…) e Brassica oleracea (cavoli, cavolfiori, broccoli, verze…).
@giam – Grazie! Concordo sulla rarefazione dei pungoli…
@ vera – Predatoria? In colpa? Se dopo aver raccolto per strada i semi di olmo ne perdi “casualmente” qualcuno lungo il sentiero avrai fatto il tuo dovere 🙂
Sono troppo angustiata per la sorte del piccolo Nathan Falco Briatore, proditoriamente allontanato dal suo yacht, ecco perché non pungolo.
E comunque, già che son qui, colgo l’occasione per pungolare vivacemente il Meristemi, che dia seguito alla mirabile opera costì annunciata!
Eh si, debbo concordare con equipaje, sentiti pungolato, io mi sono già sbilanciato annunciando ai 4 venti del tuo prossimo venturo.
Eh, siamo a tre quarti della cottura. Speriamo di farcela prima di partire per Ziguinchor venerdi…
[…] correlati ma tangenziali consiglio i sempre ottimi post di Meristemi (aka Erba Volant) qui, qui e […]
Non solo il Pieroni in Garfagnana si occupa della diffusione delle esperienze e conoscenze alimurgiche, ma anche io che ho già pubblicato due libri editi da Felici Editore Pisa, “Piante eduli spontanee” e ” Ricette toscane di erbe spontanee”. Mi dedico a diffondere le mie conoscenze attraverso Aziende agricole, docente di corsi di Fitoalimurgia presso la CIA
di Pistoia, esperienze di varie mostre organizzate presso Parco di San Rossore e presso il Dipartimento Prenenzione ASL Pisa ed esperienza
culinaria presso vari Ristoranti del territorio Pisano. Ritengo comunque molto valido il vostro contributo che state dando. Continuate forse così anche i giovani capiranno e si dedicheranno con interesse alle “erbe spontanee”
Congratulazioni
Buratti Paolo