La scivolosa verità sulla doppia vita della gomma Guar

Non sempre è andata bene, coi clienti. Anche se sono passati diversi anni, c’è un cliente che ricordo bene. Alla perfezione me lo ricordo, ci mancherebbe altro. Era arrivato in ufficio una mattina in cui non avevo appuntamenti, mentre ammazzavo il tempo riordinando lo schedario. Ben vestito e lindo, si intrufolò insinuando come prima cosa la testa di capelli unti nella porta socchiusa, indicando il logo dell’Agenzia con la mano sinistra e dicendo che aveva bisogno di me. Voce artatamente incerta ma eloquio fluente, buona recitazione. Odorava di piazzista di lungo corso -questo lo avevo capito- ma era stata una settimana fiacca: nessuno aveva richiesto i miei servigi, nessuno aveva bussato proponendo una consulenza sugli impieghi di vecchie piante o facendomi annusare un centone in cambio di idee precotte tra quelle già messe a punto dall’evoluzione. Per cui, simpatico o meno, starlo ad ascoltare era il minimo sindacale per dare senso a sette giorni di inedia lavorativa.

Iniziò con un certo imbarazzo, quasi farfugliando. Avevo capito che era coinvolto in qualcosa di losco, poco chiaro, ambiguo e sfuggente, il linguaggio del suo corpo lo evidenziava in grassetto, di certo non con le letterine a corpo tre che abitano gli oscuri abissi marini fondo ai contratti da firmare. “Sa, il nostro è un grosso business, i guadagni sono assicurati. E’ un mestiere che rende, tutti chiedono quel che offriamo e visti i trend dei materiali che trattiamo si prevede un grosso boom del settore, soprattutto nelle zone del Nord America e nelle aree rocciose di Asia ed Europa Orientale. Ma a livello di immagine si esce con le ossa rotte. Capisce?” Certo che capivo. E quindi? “Vede, operiamo nel campo…” si contorceva sulla sedia, quasi piegandosi verso di me a sussurrare “… nel campo delle… chiamiamole… “perforazioni”. Ma non quelle convenzionali. E’ un lavoro sporco, criticato dai moralisti, capisce?” Certo che capivo. E quindi? “Perforazioni in luoghi oscuri, marginali. Un retrobottega in cui gli operatori convenzionali di solito non si infilano, perché il rapporto impegno-beneficio è, come dire, ostico per chi ricorre al soliti sistemi. Capisce?” Certo che capivo. Capivo e l’aspettavo al varco. Ormai proteso sul piano della scrivania, parlava con un filo di voce, gettando lo sguardo verso la porta, quasi a fugare il rischio di un’ombra scomoda oltre il vetro smerigliato dal logo Erba Volant. “Vede, le nostre perforazioni sono eventi abbastanza violenti e drastici. Attriti, resistenze, necessità di mantenere aperti i varchi una volta penetrati negli strati più restii. Ci serve un lubrificante. Ma non uno qualunque: ci serve denso, con alte doti di viscosità. Perfettamente idrosolubile, che non lasci tracce. Efficace nell’aumentare le pressione idrostatica non solo nella direzione della trivella, ma anche lateralmente, per diffusione, aiutando a mantenere divaricati i varchi aperti con la forza. Lo vorremmo economico e già disponibile in grandi quantità, se non chiedo troppo. E poi deve avere anche un’altra caratteristica: deve essere assolutamente ecologico e biodegradabile, perché una volta usato non lo si va certo a recuperare per lo smaltimento. Magari legato alle economie dei paesi poveri. Sa, noi già abbiamo una certa nomea da bonificare e in alcune nazioni queste nostre perforazioni sono proibite, considerate come atti impuri e contronatura. Non ci possiamo proprio sputtanare completamente. Capisce, no?”

Certo che capivo. Ero lì apposta, per capire. Tirai fuori il classificatore dei viscosizzanti e dei modulatori reologici di origine vegetale e lo sfogliai con finta indolenza. Il volume della reologia, la branca della fisica che studia la capacità di scorrimento delle sostanze, l’avevo consultato spesso e per gli usi più disparati: mi aveva salvato coi gelatai che volevano un sorbetto dotato della giusta consistenza, con le industrie farmaceutiche che desideravano gel biodegradabili da spalmare sui culetti dei neonati, con i fornai che volevano impasti abbastanza viscosi da stare in piedi anche senza glutine o quasi. Mi aveva tolto dai guai persino con un’azienda di stampanti a getto d’inchiostro che desiderava una migliore distribuzione del colore e con un produttore di yogurt che voleva addensare il suo prodotto per ottenere particolare effetto vellutato, tutte cose che si riescono a fare sfruttando le proprietà dei polisaccaridi messi a punto dalle piante per i loro bisogni ecologici e fisiologici. Approfittando di una pausa del mio interlocutore iniziai quindi a sciorinare il mio sapere, come al solito prendendola larga. Le piante producono una miriade di polisaccaridi dalle infinite funzioni, polimeri formati da mattoni zuccherini, che oltre a fungere da riserva energetica come nel caso dell’amido, assolvono ruoli fisico-meccanici con performance di prim’ordine. Ad esempio, possono aumentare enormemente il loro volume una volta umettati con acqua e la loro variabilità assicura caratteristiche chimico-fisiche variabili anche tra specie e specie.  Con uno zic del polisaccaride giusto e due gocce d’acqua viene fuori un sacco di gel viscoso e lubrìco. Per capire bene il sistema che le propongo di usare -dissi chiudendo la porta alle sue spalle per non farlo scappare- le devo però spiegare come le piante hanno risolto il problema della radicazione in suoli compatti e duri, come quelli argillosi dei terreni aridi. Fino a che i semi cadono in terreno soffice e magari lavorato dall’uomo il problema non si pone, ma in natura le cose stanno diversamente. Spiazzare la concorrenza, andare là dove altri non osano, lo sa meglio di me, permette di conquistare nuovi mercati, che in questo caso sono quelli dei terreni duri da penetrare. Insomma, credo che lei lo sappia meglio di me. Per penetrare in un terreno duro e compatto come ad esempio un’argilla disidratata, la radichetta di una pianta ha bisogno di un sistema che minimizzi l’attrito combinato a uno che agisca da leva. Un’altra capacità fondamentale è quella di trattenere l’acqua necessaria alle funzioni vitali e alla germinazione, catturando l’umidità della rugiada, strappandola dall’argilla e persino assorbendola dall’aria, se necessario. Nel penetrare il terreno le radichette lavorano quindi su più fronti, molti dei quali modulati da un’unica classe di sostanze, quella di cui parleremo per i vostri bisogni.

Innanzitutto, la crescita della radice avviene dalla punta, dall’apice che si allunga esplorando il suolo in cerca di umidità. Le cellule che formano questa punta sono molto delicate e per facilitare l’assorbimento di acqua hanno pareti sottilissime coperte da uno strato di materiale lubrificante detto mucigel, disposto a formare una specie di cuffia attorno all’apice radicale, che deve essere protetto per non essere leso durante la penetrazione nel terreno. Inoltre, queste cellule sono velocemente rimpiazzate da altre e la radice progressivamente si accresce in diametro sia perché le cellule aumentano di numero sia perché le mucillagini che contengono aumentano di volume mano a mano che assorbono acqua. In questo modo, una volta infilatasi nella crepa di una zolla anche dura, la radice la spacca facendosi strada. Avrà ben presente le piante spaccasassi che riescono a sgretolare asfalti e cemento, ecco, lavorano così. Le cellule al di sopra della cuffia e lungo le prime fiancate della radice hanno una forma allungata, come piccoli nastrini e soprattutto hanno pareti ricche di polisaccaridi mucillaginosi come quelli cui ho accennato prima. A contatto con il terreno, per effetto dell’abrasione data dalla radice in crescita, si disintegrano e assorbono umidità, formando il mucigel, che svolge azione lubrificante facilitando la penetrazione della radice nel suolo. Certo, non si può ipotizzare l’uso dell’apice delle radichette per i vostri scopi, le quantità sono insufficienti, ma si può recuperare qualche organo vegetale che contenga sostanze simili, dotate delle stesse proprietà e disponibile in quantità industriali.  Per sua e nostra fortuna, mucillagini ad alta viscosità con caratteristiche simili si accumulano anche in radici adulte e per quanto ci riguarda soprattutto in alcuni semi, dove svolgono sia questa funzione che quella di riserva per la nuova piantina.

Le sostanze utili a risolvere il problema del trivellatore si possono ricavare quasi tutte da semi o da piante adattate a climi aridi e sono diverse le molecole papabili, perché esistono molti diversi zuccheri di partenza con quasi infinite combinazioni. Simili  a quelle del mucigel, ma con alcune differenze. Restando nella necessità specifica di migliorare le performance studiate dalla reologia, queste sostanze devono le loro doti alla capacità di generare strutture solide assai resistenti, grazie a un fitto impacchettamento delle loro catene polimeriche, che agevola la combinazione con le molecole d’acqua, aumenta la coesione interna al gel assicurando infine una viscosità altrimenti quasi impossibile da ottenere in un sistema acquoso. Spesso poi agiscono contemporaneamente da chelanti, emulsionanti,  flocculanti, rigonfianti, sospendenti, stabilizzanti e filmanti ma soprattutto, pur restando fluidi o semi fluidi le loro versioni idratate offrono un’eccellente resistenza allo scorrimento. Inoltre, derivando da fonti rinnovabili sono ben accetti, hanno un costo irrisorio e sono biodegradabili e atossici, con buona pace anche dai consumatori più pignoli. “Agar, carragenani, gellani, xantani, alginati, pectine e mucopolisaccaridi, basta avere ben chiare le specifiche tecniche da ottenere per il viscosizzante desiderato e la pianta che produce il polisaccaride giusto si trova”, dicevo al tipo mentre ripassavo le linguette del classificatore in cerca della carpetta giusta. “E poi sono inerti, non interagiscono coi supporti, non temono le condizioni più roventi e non danneggiano eventuali utensili usati nella divaricazione…” conclusi ammiccando. Dato che avevo capito, conveniva farglielo sapere.

Ma l’aspetto fondamentale, che deduco essere quello di maggiore interesse per le vostre “perforazioni”, dissi virgolettando con le mani nello spazio tra me e lui, è che alcuni polisaccaridi vegetali sono dei veri e propri gioiellini per gli appassionati di scorrimento, in quanto possono aumentare la viscosità delle emulsioni anche in condizioni ambientali estreme. I galattomannani ad esempio sono formati da unità di mannosio e galattosio uniti con un legame glicosidico β-D-(1-4) e nelle piante si trovano in forma di catena lineare con brevi rami laterali dati da legami 1-6 di galattosio e dotati di peso molecolare superiore a 250000 dalton. Riescono a formare, per semplice contatto con acqua, strutture tridimensionali stabili, coerenti, con doti meccaniche intermedie tra quelle dei solidi e dei liquidi. “Le faccio vedere come funziona”, dissi. Questa polverina è un galattomannano come quello della gomma Guar: un po’ di mannosio e un po’ di galattosio uniti a formare un polimero. Si tengono per mano, come gli omini di carta ritagliata, solo che di mani ne hanno tre e ogni tanto usano anche questa terza mano, disponendosi nelle tre dimensioni. Alla fine salta fuori un bel molecolone formato da 1000-1500 omini, che cattura acqua appena l’annusa grazie ad una serie di efficienti ponti idrogeno che vincolano la molecola come fili imbastiti. Non tenacissimi, ma efficaci a bloccarla nella sua struttura tridimensionale un po’ come i mille cavi dei lillipuziani con Gulliver, facendo assumere al prodotto umettato tutte le doti di scorrevolezza e viscosità che si desiderano. In particolare, i galattomannani come questo formano un mezzo continuo gelificato in cui le catene polimeriche sono disposte a formare un reticolo tridimensionale esteso per tutto il sistema in cui sono iniettati, spalmati, applicati. I legami che si formano tra le unità zuccherine sono abbastanza forti da impedire all’acqua di solubilizzare il reticolo e quindi tutta la struttura può soltanto essere rigonfiata dall’acqua stessa, trasformando un solido (il polisaccaride) e il liquido (l’acqua) in una cosa diversa, ovvero un gel, un network di polimeri stabile nel tempo difficile da comprimere ma facile da iniettare e plasmare grazie alla sua viscosità e scorrevolezza. Fino a che questo avviene sulla superficie di un seme, come quello di cui le parlerò a breve, il risultato è una marcata igroscopia, un forte assorbimento di acqua che rende gelatinose ed espanse le parti esterne dei cotiledoni, ma quando sono coinvolti anche nell’azione della radichetta che di genera dal seme germogliato, i compiti di queste molecole aumentano. Se per caso i galattomannani gelificati sono infilati a pressione in un varco, contribuiscono a tenerlo aperto garantendo lo spostamento di materiali attraverso di esso, minimizzando gli attriti.

“Per una radichetta che si infila in un terreno arido, secco, duro e roccioso queste proprietà possono essere assai utili per scopi simili ai vostri”, chiosai “dato che è anche grazie a simili polisaccaridi iperviscosi presenti nel mucigel e al loro enorme rigonfiamento igroscopico che alcune specie vegetali penetrano nella fessure di suoli più riottosi e divaricano le zolle argillose lubrificando al tempo stesso il passaggio delle loro delicate radichette”. Misi malignamente un’ottava extra su verbi dell’ultima frase. Mi rispose con una competenza tecnica che non mi aspettavo, ma a cui non feci troppo caso preso com’ero dalla possibilità di un affare, anche minimo: “Lei sa bene che per massimizzare la pressione idrostatica alle condizioni che le descrivo la variabile decisiva è la viscosità. E la viscosità dipende da vari fattori. La pressione idrostatica non dipende dalla forma del recipiente né dalla quantità di liquido presente”, recitò scolastico”. Venne fuori che conosceva la legge di Stevin, come sapeva che la sostanza in questione doveva avere doti tissotropiche elevate restando sempre liquida, senza mai solidificare veramente. Gli serviva insomma un materiale che fosse inizialmente liquido in soluzione acquosa ma in grado di addensare rapidamente e mantenere l’elevata densità nel tempo. Qualcosa non tornava con l’idea che mi ero fatto all’inizio sul concetto di trivellazione in luoghi oscuri, ma non mi importava. Il cliente ha sempre ragione e io penso sempre male.

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Capii che la spiegazione stava debordando e che al mio interlocutore interessava molto la soluzione e poco il perché. Così, brandendo la carpetta giusta lo rassicurai sul fatto che costi, disponibilità e zona d’origine non erano un problema e che avevo per lui il polimero giusto, solubile sia in acqua fredda che in acqua calda e capace di tollerare molto bene anche eventuali scostamenti del pH dalla neutralità: la gomma Guar ricavabile dai semi di Cyamopsis tetragonoloba, una leguminosa erbacea annuale vagamente simile alla soia e assai resistente alla siccità. Si trattava di una materia prima già disponibile grazie ad ampie coltivazioni in India, dove i semi vengono tostati, privati della cuticola esterna liberando l’endosperma e i due cotiledoni, che sono poi poi polverizzati. Nel suo habitat la pianta riesce a germinare catturando acqua persino dall’umidità atmosferica e rispetto a tutti quelli messi a punto dal laboratorio evolutivo i suoi galattomannani sono i migliori sulla piazza in termini di viscosità e rapporto quantità/prezzo. Per la sostenibilità ambientale nessun problema, né in entrata e neppure in uscita: in quanto Leguminosa la pianta aiuta a fissare l’azoto nei terreni spompati da altre colture e in quanto additivo alimentare registrato (E412) se ne possono ingurgitare cucchiaiate senza grossi problemi. Al massimo, un po’ di mal di pancia per l’azione lassativa meccanica e fermentazioni intestinali annesse. Anzi, ci avevo pure alzato un paio di tredicesime con un tizio che voleva fare una bibita dietetica buona per la salute, per abbassare gli zuccheri e il colesterolo all’epoca del boom degli alimenti funzionali, per gli sciagurati dell’alimentazione tecnologica. Al mio potenziale cliente bastò umettare qualche grammo di farina che avevo allegato alla cartella della gomma Guar, saggiare tra indice e pollice la scorrevolezza del gel che si era subito formato e annuire soddisfatto: avrebbe fatto qualche prova e si sarebbe fatto vivo per approfondire. La stretta di mano untuosa sui saluti era esattamente quella che mi aspettavo in quel momento.

In realtà non avevo capito un bel niente. Non si fece più vivo e l’amara verità mi colpì alle spalle solo alcuni anni dopo, quando studiando un pane integrale ipocalorico per una grossa azienda alimentare l’ufficio acquisti mi bocciò il prototipo a base di gomma guar estratta da Cyamopsis tetragonoloba, perché la materia prima costava troppo. Andai a cercare un grafico con l’andamento dei prezzi della gomma guar, scoprendo l’arcano: per cercare di capire tutto non avevo capito niente. I viscosizzanti a basso impatto ambientale e filiera green, le trivellazioni non convenzionali da lubrificare, le fessure da tenere divaricate in profondità e via discorrendo non erano da riferire a qualche sordida pratica da pervertiti. L’ambiguo esperto di perforazioni voleva un viscosizzante da usare nel fracking, il sistema di fratturazione idraulica usato per estrarre microscopiche sacche di gas metano dalle rocce, per spremere le risorse del suolo e mandare avanti fuori tempo massimo l’industria del combustibile fossile. La gomma guar grazie alla sua viscosità sufficientemente elevata da penetrare nelle rocce, amplificarne la frattura (come le zolle di argilla spaccate dalle radichette ricche di galattomannani!) gli serviva per facilitare il pompaggio di acqua e agenti solidi come la sabbia, usata per tenere aperte a grandi profondità le microfratture fino a che non è stato aspirato in superficie tutto il metano possibile. Il fracking prevede infatti l’uso di due tipi di fluidi, uno che spacca la roccia in profondità per pressione e uno che serve a non far richiudere le crepe, agevolando l’uscita del gas liberato. Il guar, mescolato ad acqua e sabbia, serve proprio a questo, aumentando la viscosità del fluido in maniera tale da permettere alla sabbia di piazzarsi tra le microscopiche crepe permettendo però permettendo ad essa di muoversi vincendo l’attrito quando il gas è pompato verso la superficie.

Gel-Fracking-Treatment
Per colpa della mia dritta, delle meravigliose e progressive sorti dell’evoluzione e per merito del mio furbo interlocutore, le gomma guar estratta dai semi di Cyamopsis tetragonoloba era diventata un ingrediente chiave nei fluidi di fratturazione. Acqua, sabbia e additivi idrosolubili viscosi e poco inquinanti per aumentare la pressione laterale ad alte profondità geologiche, quello gli serviva e quello gli avevo servito su un piatto d’argento.

guargum Una volta iniziato l’uso e appena partiti gli ordini in massa dei frackers i prezzi della materia prima erano schizzati alle stelle, crescendo del 1000% nel solo 2012 fino ad arrivare a oltre 1500 dollari la tonnellata. Nel 2013 la superficie coltivata a Cyanopsis tetragonoloba in India era cresciuta del 20% e in tutte le zone a clima arido c’era qualche agricoltore che aveva iniziato a pianificare coltivazioni di quella leguminosa dal nome impronunciabile, prima conosciuta solo ai tecnici e ai maniaci delle etichette cosmetiche e degli additivi alimentari e ora importata quasi tutta verso gli Stati Uniti. Il prezzo era poi crollato per le solite dinamiche legate all’ingordigia economico-finanziaria dal guadagno facile e il mio pane integrale innovativo aveva ancora qualche chance, ma nel frattempo con il mio suggerimento qualcuno ci aveva fatto dei gran soldi. E io non avevo capito proprio un bel niente. Era evidente che dovevo farmi più furbo.