La ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e seven-up, mentre dal tavolo al mio fianco un signore attempato ne osservava il sorriso, indossando barba, malinconia e indecisione con analoga grazia. Io rimiravo in ordine sparso e con sguardo vacuo il tablet, il blocco degli appunti, lo smartphone e gli occhiali sporchi piegati sul tavolo unticcio di quell’autogrill, alla periferia delle ultime arterie rimaste al trasporto su gomma. L’atmosfera era sospesa, in quel posto tra la via Emilia e la nuova frontiera dei pianeti abitabili scoperti da pochi giorni. Pianeti in realtà già abitati, stando alle indicazioni degli astronomi, da esseri viventi con non ben precisate proprietà fotosintetiche, “piante extraterrestri” la cui vera natura era più certa di quella dei batteri-flop del decennio scorso su Encelado e Marte, ma tutta da chiarire. Nel 2014 gli americani avevano mandato in orbita i telescopi della missione TPF per monitorare le atmosfere di pianeti potenzialmente abitabili e nel 2019 l’ESA aveva attivato la rete di satelliti del progetto Darwin, che avevano aumentato la potenza di fuoco nella rivelazione agli infrarossi del (a me fantomatico) “red edge”. Dopo 11 anni di perlustrazioni e tagli al budget delle agenzie spaziali avevano fatto bingo puntando su un pianeta della Nube di Magellano chiamato Iscandar. Questo leggevo sullo schermo davanti a me, mentre il processore del tablet trascriveva in automatico la registrazione dell’intervista telefonica fatta il giorno prima ad un astronomo dal parcheggio della redazione, nel disperato tentativo di instradare al meglio la missione impossibile appioppatami dal direttore. Dopo l’annuncio congiunto NASA-ESA e le conferme di esperti indipendenti, la frenesia collettiva era decollata con la forza di un vecchio razzo Saturn, veloce ed imperiosa, ma in quella stazione di servizio non si respirava niente del genere. La luce filtrava pigra dalle tendine di nylon rosa, il tizio con la barba interrompeva il silenzio ticchettando su una vecchia scatola di tè. Tutto era bloccato in una gelatina senza tempo, mentre resto del mondo era preso da chimere intergalattiche. Mi pareva l’angolo giusto per mettere assieme i pezzi di una storia che non avevo competenze per seguire.
Sul razzo Saturn io c’ero salito due giorni prima, quando la follia collettiva aveva preso anche il mio direttore, invaghito dal pensiero di uscire entro la settimana con lo scoop sul colore delle piante. Un miliardario aveva promesso una cifra esorbitante a chi avesse indovinato il colore dei Trifidi di Iscandar e gli allibratori erano impazziti a loro volta. Pare si trattasse di un discendente di H.G. Wells, lo scrittore che nel 1898 aveva suggerito la non obbligatorietà del verde come colore à la page per la fotosintesi marziana prima ed extra sistema solare poi. Il software di trascrizione continuava ad estrapolare parole e numeri e l’astronomo spiegava come la scoperta fosse confermata dall’incrocio di più variabili: in alcuni pianeti orbitanti attorno ad un sistema dotato di più stelle, gli spettrometri orbitali avevano individuato un’atmosfera simile a quella terrestre ed alcuni gas vantavano concentrazioni e proporzioni giustificabili solo con l’esistenza di forme di vita (ossigeno, ozono, metano, vapore acqueo e persino il gas esilarante prodotto dalle ossidoriduzioni batteriche). La rotazione del pianeta, la temperatura, le dimensioni, tutto a modino. E soprattutto i satelliti Darwin avevano incrociato questi parametri con un inequivocabile segnale negli infrarossi, corrispondente al “red edge” tipico degli organismi fotosintetici. Secondo l’astronomo la notizia era confermata, perché una simile combinazione di fattori era possibile solo in presenza di “quella che i biologi attualmente definisono come vita vegetale“. Tutto intrigante e perfetto per l’attacco dell’articolo, ma inutile per soddisfare la bramosia di scoop del direttore. “L’esperto ci serve“, aveva ribadito prima di silurarmi a caccia “Quando non sai qualcosa, subappalta la responsabilità all’esperto. Se sei fortunato ti assicura anche la nota di colore. La gente ha bisogno di essere rassicurata, questa cosa dei pianeti mette tutti in uno stato di incertezza e dobbiamo puntare la lupara sulla pancia del lettore“. Dopo aver fatto un’altra intervista in una città vicina, lungo la strada avevo cercato un angolo tranquillo per redarre il testo, chiarirmi le idee e magari farmi venire un’idea buona per la chiusura. Le ultime parole del direttore mi tornavano su come una cena pesante. “Marziani verdi, venusiani grigi, pianeti rossi, lo specchio dell’acciaio delle astronavi, il nero dello spazio vuoto. Il colore è sempre stato una chiave di volta emotiva nell’immaginario galattico“.
Poco dopo aver pronunciato le parole “come vita vegetale“, lo smartphone dell’astronomo aveva esaurito la batteria, lui era scomparso nell’oblio telematico, io ero rimasto appeso al precipizio del dubbio sul “red edge”, il silenzio era calato nella mia mente e preso dall’ansia di questo domino sventurato di eventi ero salito in macchina per bussare alla porta di un amico biologo. Era un tipo spiccio, compagno di bevute e pomeriggi ultrà allo stadio, speravo che la sua passione per metafore e semplificazione mi avrebbe dato qualche traccia giusta, oltre a chiarirmi le idee su quegli argomenti per me alieni tanto quanto la vita su un pianeta in culo alle galassie. “Se i nostri occhi vedessero oltre il confine del visibile, le piante ci apparirebbero rosse e non verdi. Per evitare di finire arrostiti dall’eccesso di luce solare i vegetali hanno sviluppato una riflettenza ad hoc per le lunghezze d’onda più energetiche, a prescindere dal colore del loro pigmento fotosintetico. E siccome si tratta di un adattamento evolutivo tarato sulla luce, che è una roba che funziona più o meno uguale da tutte le parti nell’universo, è ragionevole aspettarsi che anche altre eventuali forme viventi abbiano sviluppato questo red edge altrove.” Meditavo su queste frasi e nel mentre il barbuto si era alzato, con una breve esitazione quasi di vergogna aveva attivato il vecchio diffusore mp3 del locale. Ne era uscita una musica tetra e carica di tensione inespressa, che mi aveva fatto venire in mente “Un bacio e una pistola”, un film noir preistorico vagamente inquietante. Sul bloc notes di carta sfogliavo altri appunti dell’incontro e contemporaneamente guardavo sul tablet alcune delle immagini che l’amico mi aveva lasciato. Ricordavo ancora le sue parole. “Guarda qui. La freccia verde in alto ti indica il comportamento della clorofilla. La freccia gialla indica invece gli effetti della struttura tridimensionale delle foglie, incluse le cere che le ricoprono. Segui ora la linea verde in basso nel diagramma, indica le lunghezze d’onda riflesse da una foglia di una pianta terrestre normale. All’altezza della colonna verde noti una gobba: vuol dire che la clorofilla assorbe il blu ed il rosso, ma sputa indietro il verde. E’ per questo che le piante terrestri ci appaiono principalmente verdi. Ne parliamo dopo, non ti agitare. Se vai avanti, in corrispondenza con il bordo tra le due frecce è indicato il red edge e come vedi nel grafico corrisponde ad un innalzamento della riflessione nella zona degli infrarossi, poco dopo i 700 nm (sono nanometri, una delle unità di misura delle radiazioni luminose. Non fare quella faccia smarrita). Le piante terrestri riflettono l’energia che arriva in quella zona dello spettro perché altrimenti la loro clorofilla verrebbe abbrustolita dall’eccesso di energia, come una svedese senza crema solare a Copacabana. Mentre la prima gobba si può spostare verso il blu o verso altri colori per effettuare la fotosintesi in condizioni particolari, la seconda rampa è praticamente inevitabile se non vuoi andare grigliato. Se guardi bene, il suolo e la vegetazione morta non fanno registrare quel tipo di salto ed è per questo che il red edge di Iscandar è importante, perché corrisponde a roba viva. Almeno, viva quando il segnale è partito da lassù, ovvero un tot di tempo fa“. Rassicurarato da quella descrizione avevo preso coraggio e timidamente avevo azzardato che, forse, probabilmente, magari, per capire il colore delle piante di Iscandar e fare contento il direttore poteva essere utile cercare di capire perché alcuni vegetali sulla Terra fossero rossi, blu o marroni e non verdi. “Non capisci niente di scienza, ma sei un tipo sveglio. Hai ragione, per capire il colore delle piante su questi pianeti devi iniziare a guardare sulla terra. Anzi, in acqua. Ma prima ti devi chiedere perché quell’albero e quel prato lì fuori sono verdi“. Detto questo mi aveva mostrato altre tre immagini, girando verso di me il suo vecchio laptop, una roba con lo schermo offuscato da una patina geologica di ditate unte. “Nella prima c’è lo spettro cromatico del visibile (quello di The dark side of the moon) e sovraimposto lo spettro di assorbimento della clorofilla, che è descritto dalla linea più scura. Vedi bene che la molecola assorbe energia nella zona del blu ed in quella del rosso, ma non in quella del verde. Questo avviene perché l’evoluzione ha premiato, almeno sulla terraferma, le specie fotosintetiche nelle quali benefici e danni dell’esposizione solare sono nel miglior equilibrio. E questo corrisponde al verde”. Si era appoggiato allo schienale ed era entrato nella modalità professorale che, lo sapevo per lunga esperienza personale, non perdeva neanche al quinto giro di Stolichnaya etichetta blu. Era meglio mettersi comodi e passare dal blocco degli appunti al registratore vocale, che feci appena in tempo ad attivare prima del diluvio verbale. “Le piante terrestri raccolgono energia luminosa e la trasformano in energia chimica, ma non usano tutto della radiazione solare, anzi selezionano alcune lunghezze d’onda ed alcuni tipi di fotoni. Poi usano il ciclo di Calvin per sintetizzare glucosio, ma oltre alla biochimica ti risparmio la fisica, la fase oscura, il funnelling elettronico ed i discorsi sui pigmenti accessori, perché so che ti perderesti. Fai invece mente locale su questo. L’efficienza della fotosintesi non risiede nell’energia luminosa come concetto assoluto bensì nella combinazione tra il numero di fotoni che colpisce la foglia e l’energia che ognuno di essi si porta dietro. Ad esempio, i fotoni blu sono ben più muscolosi di quelli rossi, che però sono molto, molto più numerosi. Quelli verdi stanno in mezzo sia per numero che per intensità e quindi non hanno dalla loro nè il numero nè la forza per costituire una risorsa vantaggiosa da sfruttare. L’evoluzione sulla Terra, alle condizioni di luce offerte dalla nostra stella di classe G2 (una nana gialla se non te l’ha già detto l’astronomo col cellulare scarico) ha favorito i pigmenti che assorbono nel rosso e nel blu e riflettono il verde. Vedi il grafico? Anticipo una tua domanda: se le piante terrestri assorbissero tutto lo spettro del visibile, includendo anche il verde, si porterebbero in casa troppa energia, con effetti deleteri. “Il troppo stroppia”, scommetto lo dicono anche a casa tua. Ti ricordi quello che ho spiegato prima sul red edge? E’ uguale, meglio perdere qualcosa per strada che portarsi in casa effetti tossici”.
Per fortuna fece una pausa, durante la quale sorseggiò del tè ormai freddo da una tazza sporca di polifenoli ossidati da mesi. Ne approfittai per controllare che le pile del registratore avessero ancora abbastanza birra per resistere al secondo tempo. Lui nel frattempo non mi considerava, preso dal suo monologo ai confini dell’autismo. “Questo però vale sulla terraferma, dove non hai il filtro dell’acqua. Le specie viventi fotosintetiche adattate alla vita acquatica hanno a che fare con una luce diversa, perché l’acqua e tutto quanto vi è sciolto o sospeso assorbono alcune porzioni dello spettro. Questo implica che la luce non sia uguale per tutti gli esseri viventi a mollo in acqua: quelli che hanno occupato gli strati più superficiali la vedono come le piante adattate alla terraferma, mentre quelle che hanno trovato liberi solo gli appartementi al seminterrato e giù verso gli scantinati hanno dovuto trovare sistemi diversi dalla clorofilla, ovvero capaci di raccattare abbastanza energia dal tipo di luce che arriva loro. Ora immagina di sostituire le batimetrie con gli spazi siderali o di cambiare la fonte luminosa come fosse una lampadina: in alcune condizioni la riflessione del verde tipica della clorofilla potrebbe non rappresentare l’opzione adattativa vincente ed altri pigmenti fotosintetici potrebbero prevalere in quanto più “fit”. Se per le piante acquatiche superficiali le conseguenze sono minime, per le piante adattate alla vita più in profondità le cose cambiano ed incontriamo prima pigmenti marroni, poi rossi ed infine blu. Addirittura alcuni batteri abissali fanno la fotosintesi con pigmenti tarati sugli infrarossi, perché là dove stanno non arriva altro. Quindi, astrobiologi e scommettitori non si aspettano piante verdi su Iscandar, dato che l’illuminazione di quel pianeta dovrebbe essere diversa da quella terrestre “. Si era fermato, finalmente, ed avevo fatto per ringraziare e andarmene sperando che non ripartisse con un’altra tirata del genere, ma mi aveva fermato con un gesto. “Aspetta, salame. Ti devo dare un contatto, adesso sei pronto a capire qualcosa di quello che ti dirà un astrobiologo serio. Tieni. Questa tipa ha scritto il testo che risponde a tutte le tue domande sul colore delle piante a Iscandar“. Mi aveva passato l’indirizzo di Nancy Kiang, un’astrobiologa del Goddard Institute for Space Studies a New York. Il cigolio con cui finì la canzone d’atmosfera scelta dal signore con la barba, palesemente invaghito della cameriera di cinquant’anni buoni più giovane, mi riportò di colpo alla bolla statica dell’autogrill.
Mentre meditavo sul da farsi, il signore con la barba si era alzato. “Quant’è“, chiese, e pagò la cameriera. Lasciò una moneta di mancia e fece per andarsene. Ripassando davanti al mio tavolo, che stava proprio tra il bancone e la porta, buttò gli occhi verso il mio tablet, in quel momento impegnato ad offrire l’immagine spettacolare della porzione di Nube di Magellano da cui quel delirio aveva avuto inizio. Con voce da montanaro chiosò quasi canticchiando “E così abbiam trovato la vita in un altro posto senza speranza. Guardando quel silenzio smisurato l’uomo si perde. Quello delle stelle è solo un pulsare illimitato, ma indifferente. Inutile sperare di andarci a trovare risposte che non ci sono“. Avevo anche la chiusura del pezzo, potevo tornare in redazione. Il direttore se ne sarebbe fatto una ragione.
Bello, bello, bello, bello, bello. Lessi (in italiano) l’articolo che hai linkato qualche anno fa’ su “Le scienze” e mi piacque moltissimo. Xenobiologia ed exobotanica le trovo assolutamente affascinanti. Ciao
Grazie!
““Se i nostri occhi vedessero oltre il confine del visibile, le piante ci apparirebbero rosse e non verdi.”
L’AGEA produce ortofoto del territorio italiano utilizzando anche la banda del NIR (infrarosso vicino), un rappresentazione in falsi colori con sintesi NIR-R-G può dare un idea di come vederemmo la vegetazione se il NIR fosse visibile a occhio nudo. Se ci si fa un po’ l’occhio si riescono a distinguere bene le gimnosperme di un bel rosso porpora 🙂
Bellissimo pezzo…complimenti!
Fantastico.
Grazie!
[…] Ribaltando la prospettiva, cercare il “viola” con i nostri telescopi spaziali, come per esempio Kepler, potrebbe forse un giorno far parte di una strategia per identificare i pianeti che ospitano la vita? Questi risultati, altamente speculativi e non ancora pubblicati su una rivista scientifica, hanno però senza dubbio un fondamento razionale in comune con gli studi di altri astrobiologi, ad esempio quelli del Virtual Planet Laboratory (University of Washington, USA), che da tempo sono al lavoro per simulare spettri alieni, compresi quelli della nostra vecchia Terra. Di recente il VPL ha anche inaugurato il catalogo Biological Pigment Database, con l’obiettivo di classificare tutte le molecole che, su un altro pianeta, l’evoluzione potrebbe aver sfruttato per la fotosintesi: una foglia, infatti, non deve essere per forza verde. […]