Facendo le pulci ai conservanti naturali

Se c’è uno spauracchio per il consumatore consapevole di fitocosmetici, questo ha il cappello storto dei parabeni, la giacca sdrucita del fenossietanolo ed è imbottito di paglia alla formaldeide. L’habitus dello spaventapasseri è quello dei conservanti di sintesi, visti a torto o a ragione come ingredienti non solo sgraditi ma potenzialmente pericolosi per la salute nostra e del nostro pianeta, come ciclicamente ricordato anche dalle associazioni di consumatori. La formaldeide, ad esempio, è classificata da tempo come potenziale carcinogeno dall’EPA, la sua tossicità ed allergenicità non sono dubbie ma certe ed il suo impiego risulta vietato in forma pura e normato per quanto riguarda le sostanze che la possono generare indirettamente, i cosiddetti “cessori di formaldeide“. Non tutti i conservanti di sintesi (non tutti i parabeni indiscriminatamente, ad esempio) sono tuttavia mostri trinariciuti, sia chiaro, ma per alcuni di essi la puzza di zolfo si sovrappone ad una certa dose di dubbi e di rischi che -la prevenzione d’innanzi al dubbio non guasta mai- porta i formulatori più coscienziosi (e/o attenti ad una certa nicchia di mercato, se volete) a cercare alternative. E induce diversi consumatori a voler scegliere consapevolmente di non rischiare. Il tutto contribuisce a definire, ed una panoramica anche rapida ai link riportati lo testimonia, un argomento su cui esistono posizioni differenti, visioni spesso preconcette da ambo i lati ed una conseguente leggera confusione al momento della scelta.

Lo stato di conservazione di creme e prodotti cosmetici, però, non guarda in faccia a nessuno e richiede formulazioni a prova di bomba o l’utilizzo di conservanti in special modo se gli ingredienti sono tutti naturali, ovvero deperibili secondo Natura. Se infatti un conservante può essere sgradito, un cosmetico degradato o mal conservato può essere causa e vettore di problemi altrettanto gravi e quasi sempre si tratta di trovare una soluzione di compromesso tra la presunta tossicità del conservante ed il rischio certo del mal conservato.

Questo, nel corso degli ultimi lustri, ha aperto la strada a numerosi ingredienti fitocosmetici dalle reali o presunte doti conservanti, con storie liete ed altre meno. Ad esempio, ha portato ad una immeritata ribalta l’uso del GSE, l’estratto di semi di pompelmo (Citrus grandis), la cui efficacia era (ed è) tuttavia dovuta alla conclamata presenza di conservanti di sintesi negli estratti commerciali testati inizialmente e più volte confermata anche in tempi recenti.

Gradualmente le strategie cosmetologiche si sono via via affinate e prevedono spesso un approccio integrato al problema: materie prime più stabili, uso di ingredienti funzionali alla conservazione oltre che all’attività, creazione di prodotti che presentino un habitat il più possibile sgradito a lieviti, muffe e batteri (meno acqua possibile o alta concentrazione di certi ingredienti, ad esempio, oppure attenta modulazione del pH), sino ad arrivare alla scelta di contenitori magari scarsamente sexy ma poco o nulla propensi a favorire la contaminazione del loro contenuto (lunga vita ai tubetti, pollice verso ai vasetti in cui infilare le dita mai sterili).

Per una panoramica in chiave professionale (intesa come rissunto divulgativo della ricerca applicata, non come ineffabile giacimento di hard-science) uno schematico quadro della situazione lo offre questo articolo apparso su Personal Care Magazine nel 2005 (scarica il pdf). Quello descritto dall’autore è un tipico approccio “ad ostacoli”, in cui una serie di ingredienti opportunamente dosati producono un effetto conservante sinergico complessivamente maggiore di quello che avrebbero se usati da soli. E’ una prospettiva più sistematica, che ha bisogno di maggiore cura e studio del prodotto e degli ingredienti rispetto a quella semplicistica, che risolve il problema draconianamente tramite l’aggiunta di relativamente grosse quantità di conservanti di sintesi. Seppur cum grano salis (alcune delle sostanze suggerite hanno un background di efficacia conservante da rivedere) l’articolo rappresenta una buona porta d’ingresso per chi volesse saperne di più, con l’intento di approfondire in seguito.

Uno dei conservanti citati nel testo e degno di una lettura dettagliata è ad esempioi un estratto commerciale di caprifoglio giapponese (Lonicera japonica), che essendo anche blandamente antinfiammatorio potrebbe permettere di cogliere i proverbiali due piccioni con una fava. Si tratta di una formulazione proprietaria, messa in commercio inizialmente da una ditta di Singapore, la Campo Research. L’azienda produce una vasta gamma di estratti ed additivi per l’industria cosmetica ed in particolare ha lanciato alcuni anni fa una miscela conservante chiamata Plantservative, di cui è disponibile una scheda abbastanza esaustiva. Spigolando per la rete sono apparsi tuttavia alcuni alert: il caprifoglio -si dice- produce formaldeide e contiene parabeni, per cui fare un poco di chiarezza sulla questione può essere utile.

Ci sono indicazioni, ma non è disponibile una vera e propria conferma inconfutabile, che Lonicera japonica possa contenere sostanze che a determinate condizioni di pH acido, solventi o altri ingredienti molto polari, presenza di metalli, luce e temperatura potrebbero degradarsi e rilasciare formaldeide. La combinazione di eventi che porta alla formazione della formaldeide pare abbastanza cabalistica, ovvero rara per una normale applicazione cosmetica ed in teoria evitabilissima se il formulatore sa il fatto suo. Non è neppure chiara la quantità di formaldeide eventualmente rilasciata, in quanto non risulta chiara la quantità di idrossimetil glicinato, ovvero del presunto precursore. Del quale, a completare uno scenario ingarbugliato, non è chiara neppure l’origine: già presente naturalmente nella pianta o ben più probabilmente aggiunto artificialmente nell’estratto come il benzetonio cloruro nel GSE? A leggere le indicazioni presenti su questo forum francese (purtroppo mancano dati bibliografici precisi ed a rigor di garantismo quanto scritto va comunque preso con le molle), il sospetto è forte e se, come si sospetta, gli estratti di Lonicera effettivamente contengono idrossimetil glicinato questo non può essere endogeno. Sia il sale sodico dell’idrossimetilglicinato che il fenossietanolo citati sono ottimi, ma non atossici, conservanti già a concentrazioni attorno all’1%.

Sull’affaire parabeni, la situazione non appare più chiara. I parabeni in fondo sono fenoli sostituiti, esteri dell’acido para-idrossi-benzoico come quello schematicamente raffigurato in figura, ed in teoria possono essere presenti in Natura (difficilmente identici ma omologhi a quelli di sintesi). Se si osservano bene le molecole illustrate nell’articolo di Personal Care, molti degli ingredienti naturali citati hanno una struttura molto vicina a quella dei parabeni. Stando all’articolo citato, che a sua volta riporta informazioni rilasciate dalla Campo Research, il caprifoglio contiene un flavonoide, la lonicerina, che può presentarsi sia in forma di glicoside semplice (aglicone luteolina normalmente legato ad uno zucchero e come tale strutturalmente identificata e classificata CAS [25694-72-8] con sinonimo Veronicastroside) che esterificata in uno dei suoi idrossili con l’acido para-idrossi benzoico, formando quello che per la nomenclatura chimica sarebbe definibile come un paraben. Si tratta comunque di un parabene sebbene molto diverso da quelli sintetici, nei quali l’acido è legato ad alcoli a corta catena (butanolo, metanolo, propanolo ecc.). Per sapere se esistono gli stessi punti interrogativi dei suoi fratelli sintetici occorrerebbero studi di tossicità specifici per questa molecola, che essendo un estere tra l’acido citato sopra ed un flavonoide è in realtà molto diversa da un parabene sintetico anche in termini di solubilità, assorbimento, stabilità, eccetera.

Mancano però, o almeno non è dato trovarle da nessuna parte, indicazioni definitive ed indipendenti sulla reale intensità dell’azione antimicrobica degli estratti di Lonicera japonica, per tacere della lonicerina isolata. Anzi, a quanto risulta spulciando la bibliografia non sono disponibili neppure dati sulla identificazione strutturale degli esteri tra lonicerina ed acido p-idrossibenzoico e tanto meno una quantificazione precisa della loro presenza negli estratti di Lonicera (qualcosa c’è in termini di flavonoidi semplici, non esterificati con l’acido p-idrossibenzoico). Abbondanti invece le informazioni su altri metaboliti secondari, a causa dell’impiego della droga chiamata Jin Yin Hua o Flos Lonicerae in Medicina Tradizionale Cinese. I dati di attività batteriostatica disponibili non sembrano distanti da quelli di altri estratti o sono presenti su pubblicazioni virtualmente inaccessibili, ergo è difficile capire che estratto è stato usato e su che matrice testato. Ho quindi il sospetto (desideroso solo di essere smentito) che quella delle proprietà batteriostatiche della Lonicera sia una indicazione deduttiva, con diversi elementi dubbi e non derivata da evidenze inconfutabili, anzi abbastanza fragile. Ovvero, visto che si dice possa contenere un presunto simil-paraben si è supposto che i suoi estratti siano antimicrobici e questa infilata di supposizioni è nel tempo lievitata sino a diventare qualcosa da presentare come un dato di fatto, senza reali evidenze concrete.

Nello stesso articolo si citano alcuni componenti di profumi vegetali come l’acido anisico e la perillaldeide, oltre a frazioni dell’olio di Melaleuca e del piccante Wasabi. L’acido usnico estratto dai licheni e l’esotico hinokitiol completano il quadro dei possibili conservanti naturali usati in cosmesi. Tra tutti l’acido usnico è quello che merita un approfondimento specifico, che seguirà a breve.