Bacche e radici #2

Tra le tante differenze che li separano, cosa distingue un cuoco da un improvvisatore ai fornelli? Il primo agisce come un ingegnere:  ha padronanza degli utensili e soprattutto ha a portata di mano tutti gli ingredienti necessari per portare a compimento un lavoro appositamente pianificato (la ricetta) e frutto di un lungo affinamento sull’abbinamento di gusti, sapori, aromi, comportamenti (il sapere gastronomico). Seppur artista nell’animo, il cuoco è consapevole delle sue azioni e sebbene ogni tanto lavori a braccio – soprattutto quando è in cerca di qualcosa di nuovo-  ancora applica al suo agire un bagaglio culturale ed un vissuto esperienziale pregresso. L’improvvisatore invece apre il frigo e guarda cosa ha a disposizione, combina cibi a sentimento con lo scopo primario di riempirsi la pancia con quel che trova. Il suo approccio è inizialmente fortuito, basato più sul disponibile e meno sul possibile. Tuttavia, il suo “far nozze con le lumache” assume col tempo i tratti di un’abitudine (cercherà di combinare soluzioni già sperimentate e riconosciute come gradevoli o soddisfacenti) e probabilmente riempirà il frigo di cibi che rispecchino questa sua esigenza dando luogo a sua volta ad un codice, ovvero ad una fonte potenziale di conoscenza utile anche per chi lavora “a progetto”.

Vista in una prospettiva storica, la storia dell’alimentazione umana e delle sue relazioni con l’ambiente segue in parte questa stessa dicotomia. Soprattutto se ad essere studiata è la relazione tra uomo e cibo e se questa viene allargata da una prospettiva strettamente alimentare verso un’inclusione di altri vantaggi meno evidenti nel breve termine, come la prevenzione delle malattie e la salute in senso lato (o il modo in cui abbiamo manipolato la diffusione delle specie vegetali, ma questa è un’altra storia). Le scienze moderne della nutrizione lavorano infatti secondo un modus operandi più simile a quello del cuoco, raccogliendo saperi certi e dimostrati ed impastandoli tra loro al fine di ottenere un risultato prefissato: hanno individuato il problema, l’esigenza ed i rapporti causa-effetto e ricostruiscono i tasselli con un fine. Lo fanno avendo a disposizione una serie quasi infinita di caselle già riempite, compresa quella degli obiettivi. Spesso però queste nozioni non sono state codificate in tasselli di conoscenza da sempre, ma loro status è stato a lungo quello di un sapere tacito che prendeva le mosse da “quello che c’era in frigo”, ovvero dalle piante disponibili nei campi, fossero essi agricoli o incolti. Come spesso capita, tasselli di sapere legati alle relazioni uomo-pianta che consideriamo definiti sono in realtà frutto di un’indagine a ritroso che parte dall’analisi dei comportamenti inconsapevoli dell’improvvisatore davanti al frigo ed arriva con un corredo di spiegazioni sul bancone degli utensili dei pianificatori.

Prendiamo ad esempio la dieta mediterranea, la cui definizione ha tra i capisaldi gli studi condotti nelle isole greche – Creta in primis– nell’immediato dopoguerra, quando l’erosione culturale della tradizione alimentare aveva inciso minimamente sulle abitudini degli isolani. Qui a fianco è riportata la classica piramide degli alimenti che fanno parte di questa dieta, delle loro porzioni e delle relative frequenze consigliate. Questa versione è una delle più vicine alle indicazioni degli studi antropologico-nutrizionali, è prodotta dal Ministero greco per la salute ed ha una differenza rispetto a quelle più comunemente disponibili. Nel settore dedicato alle verdure è infatti specificato a chiare lettere “including wild greens“, ovvero “verdure spontanee incluse“, una nota che in genere è omessa a favore delle verdure coltivate, più comunemente disponibili sul mercato e quindi più accessibili ai consumatori. Evitando di fare del barocco ulteriore sull’evidenza: nella dieta mediterranea cretese originaria (ma come dimostrabile anche in quella siciliana e di altre zone) le piante commestibili spontanee avevano un ruolo consistente e come vedremo di seguito il loro contributo è stato nel corso di questi decenni in parte oscurato dalla rilevanza sinora data a vino rosso, olio d’oliva, acidi grassi insaturi e porzioni di frutta e verdura, tutti ingredienti e prodotti più affini al mondo commerciale e quindi più attentamente scandagliati.

Alla dieta mediterranea sono stati ascritti diversi vantaggi, non ultimo quello di contribuire alla prevenzione di alcune patologie croniche. Quando i ricercatori studiano l’efficacia della dieta mediterranea tradizionale nella prevenzione di malattie la cui eziologia coinvolge processi ossidativi (forme tumorali e patologie cardiovascolari su tutte), correlano indicazioni epidemiologiche contemporanee e passate dando quasi per scontato che le caselle della piramide siano rimaste invariate. Non mi risulta siano stati fatti confronti diretti e questa affermazione è ancora ipotetica per diversi autori, ma è tuttavia possibile che l’effetto protettivo della dieta mediterranea contemporanea sia diverso da quello della dieta mediterranea tradizionale anche per il diverso apporto garantito dalle piante spontanee. Un apporto che la perdita di sapere tacito e la trasformazione dell’approccio culturale all’alimentazione ed al rapporto tra uomo e pianta hanno sostanzialmente silenziato.

La presenza di un numero consistente di piante spontanee nei ricettari greci (circa 150) ed in generale il loro numero elevato in molte ricette anche italiane (piatti come il pistic friulano ed il prebuggiun ligure ne annoverano diverse decine) si spiega lungo linee differenti, che mescolano opportunità e casualita. La pianta spontanea è, per sua definizione, trovata “per caso” (in realtà il raccoglitore abituale sa perfettamente dove andare) e questo implica la sua facile sostituzione/intercambiabilità nella ricetta. Non è neppure trovata in quantità, salvo rare eccezioni, per cui è più facile raggiungere la “massa critica saziante” combinando specie diverse: più specie si conoscono e si possono includere e meglio è. Questo implica conoscenza, tempo ed accettazione della variabilità, tutti parametri il cui rendimento è andato in drastico calo negli ultimi 150 anni. Queste piante alimentari spontanee quindi non sono propriamente considerabili come alimurgiche, nel senso che rientravano nell’alimentazione quotidiana e non solo in casi di emergenza. Vi rientravano in genere all’interno di torte e paste ripiene, un elemento importante che può portare a sua volta a due tipi di riflessioni. La prima è che molte ricette tradizionali italiane attualmente preparate con un singolo ingrediente vegetale forse sono l’evoluzione moderna di piatti anticamente cucinati a partire da più specie spontanee mescolate tra loro (penso all’erbazzone reggiano, ai tortelli di erbette, alla pasta con i tenerumi, tanto per spaziare lungo la penisola), dato che hanno molti elementi in comune con le torte cretesi (amido e grassi nella parte esterna ottenuta da piante coltivate, fibre e micronutrienti dal ripieno vegetale). Il secondo è che questi piatti hanno continuato ad essere consumati anche quando l’agricoltura aveva una forte dominanza e si era ormai imposta come fonte primaria di nutrimento. Siamo in genere abituati a porre una cesura pratica e culturale netta tra epoca della caccia/raccolta ed epoca dell’allevamento/coltivazione, come se vi fosse stato un switch-off netto nell’uso delle piante spontanee una volta nata l’agricoltura. In realtà i due sistemi approvvigionamento del cibo hanno tranquillamente continuato a coesistere sino a circa 70-80 anni fa, nei paesi occidentali. Per restare  nella terminologia usata per la transizione da digitale ad analogico nella televisione odierna, il periodo di switch-over è stato lunghissimo e quelle abitudini che Calvino considerava “serbate nel lento ruminio delle coscienze contadine sino a noi” hanno continuato ad abbinare i vantaggi energetici e palesi delle farine amilacee e dei grassi con altri vantaggi, quelli inconsapevoli e protettivi delle piante spontanee.

Quali sono queste piante e soprattutto quali caratteristiche hanno dal punto di vista alimentare/salutistico? Si tratta in genere di piante molto ricche di fibre, con un buon contributo in zuccheri a lenta assimilazione e molto ricche di antiossidanti. Ad esempio, due fette di una torta tradizionale cretese a base di erbe spontanee hanno un contenuto in flavonoidi di 12 volte superiore ad un bicchiere di vino rosso e varie piante quasi sempre incluse nella ricetta hanno un contenuto in quercetina paragonabile a quello delle cipolle ed una, Rumex obtusifolius, ne contiene il doppio a parità di peso. Molte altre specie “da cicoriari” come Sonchus oleraceus, Asparagus acutifolius e Diplotaxis erucoides si posizionano tra i primi posti nella classifica della protezione antiossidante, se confrontate con le piante alimentari più usate in Italia. Un loro consumo costante e regolare, si ipotizza, potrebbe costituire un elemento importante nella “fitness alimentare” garantita dalla dieta mediterranea tradizionale, al punto che alcuni suggeriscono di considerare queste piante come l’equivalente mediterraneo del tè nella dieta orientale. Le “edible wild greens” della piramide greca non sarebbero quindi da considerare come un semplice alimento, ma quasi alla stregua di un proto-integratore alimentare assunto con regolarità, creato senza una reale pianificazione dagli improvvisatori ma potenzialmente in grado di compensare la perdita di micronutrienti dovuta alla progressiva selezione e raffinazione delle specie agricole. Le quali sono state nei secoli ottimizzate per massimizzare gusto e contributo calorico a scapito dei metaboliti secondari antiossidanti e delle fibre, come raccontato in questo eccellente articolo, a mio avviso uno dei migliori approfondimenti disponibili sulla piazza.

Nelle prossime puntate: perchè in alcune popolazioni il passaggio da un’alimentazione basata sulle spontanee a cibi ad alto rendimento nutritivo ha causato disastri; perchè le piante spontanee commestibili sono in genere erbacee e che relazione hanno con quelle coltivate e quali strumenti tecnologici sono disponibili per identificarle.