SettiManna #4: la manna in cucina

E’ divertente osservate come per i semiologi l’espressione “parola mana” significhi un vocabolo la cui interpretazione varia a seconda di chi lo pronuncia o un contenitore di significato dentro al quale collocare oggetti o concetti diversi tra loro. La manna stessa, come accennato in precedenza, è una sorta di parola mana in quanto al termine sono abbinati materiali ottenuti sia da vegetali che da animali (piante superiori, licheni, insetti), secondo processi biologici ed ecologici diversi tra loro (stress idrico, aggressione patogena, lesioni meccaniche) e soprattutto composti da sostanze diverse per composizione e gusto. Al tempo stesso il suo ruolo cambia in funzione dell’utilizzatore: blando purgante per farmacisti ed erboristi, edulcorante a basso indice glicemico per il nutrizionista, ingrediente esotico con cui stupire per lo chef. Pare ad esempio che i cuochi di New York, almeno quelli più desiderosi di soddifare la bramosia esotica ed il portafogli dei loro munifici clienti, abbiano scoperto il fascino esoterico di questi essudati zuccherini e si siano sbizzarriti a reperire le manne più strampalate per inserirle nelle loro creazioni. Che il prodotto sia in qualche modo trendy lo testimonia l’esistenza di una pagina dedicata alla manna in cucina nientepopodmeno che sull’enciclopedia alimentare dell’Huffington Post. Ma il riferimento più sfizioso è questo articolo del New York Times, da cui riporto i pareri estasiati di alcuni chefs.

Garrett McMahon, a sous-chef at Perilla in Manhattan, uses Hedysarum manna with sea salt to finish off a foie gras terrine with Marcona almonds, candied kumquats and toasted brioche. “The manna allows us to achieve a sweet, salty balance while maintaining a great crunchy texture,” Mr. McMahon said. Paul Liebrandt of Corton in Manhattan used Shir-Khesht manna in a dish of charred Frog Hollow Farm apricots, fresh wasabi and Kindai kampachi. […] Shir-khesht looks like broken-up bits of concrete or coral and is whiter than hedysarum manna. It is sweet, with some gumminess that eventually dissolves in the mouth. Shir-khesht’s tongue-cooling effect comes from mannitol, a sugar alcohol in this and many other mannas; the sensation is similar to menthol, without the menthol taste. It has notes of honey and herb, and a faint bit of citrus peel.

Il prodotto chiamato Shir-khesht è in realtà un essidato zuccherino che si accumula come risposta fisiologica di difesa tra luglio ed agosto sui rami di alcune specie Cotoneaster attaccate da Scolytus rogulosus, un coleottero fitofago. L’Hedysarum manna è invece è una di quelle manne prodotte non dalla pianta bensì direttamente dall’aggressore, ovvero è un prodotto di origine animale. Nello specifico si tratta di materiale espulso da individui della specie Poophilus nebulosus dopo che si sono nutriti della linfa di alberi ed arbusti del genere Alhagi. Stando ai resoconti letterario-sensoriali dei sommelier del gusto ha un sapore “che ricorda una combinazione di sciroppo d’acero, zucchero di canna, melassa di e noci“. Il commento di un cuoco in merito alla percezione sensoriale di questi ingredienti è particolarmente interessante.

“The texture is unlike any other I’ve experienced — chewy and crunchy at the same time,” Mr. Liebrandt said. “It also makes the food intensely personal, because no two people taste manna the same way. I might taste a haunting minty-ness, while you might detect a whiff of lemon. No other ingredient is like that.

Fatto salvo il bisogno del cuoco di vendere bene il suo prodotto ad un mercato bramoso di distinzione a qualunque prezzo, in realtà la variabilità nella percezione del gusto di questi essudati è in buona parte legata all’alta variabilità nella loro composizione chimica, che cambia spesso profondamente anche tra una pianta e l’altra. Infatti, soprattutto quando ci sono di mezzo risposte a stress ambientali (l’insetto che punge, l’acqua che latita), la risposta biochimica delle piante è estremamente variabile e quasi personalizzata in funzione della quantità d’acqua effettivamente disponibile ed a sua volta dipendente dalla composizione del terreno, dall’esposizione della pianta e persino dal tipo di aggressore, nel caso degli essudati di origine fitofaga. Se un cuoco creativo nostrano volesse replicare le ricette dei colleghi americani impiegando la manna di frassino, potrebbe ad esempio andare incontro ad alcune scoperte gustative abbastanza sorprendenti.

Mediamente la manna di frassino contiene circa il 40-50% di mannitolo, il 15-20% di mannotriosio, il 10-15% di fruttosio, il 5-10% e solo il 2-3% di glucosio ed ha quindi un sapore dolce. La variabilità dei rapporti tra queste sostanze è però estremamente elevata ed è estremamente facile trovare partite meno dolci e quasi insapori accanto ad altre squisitamente mielose. Inoltre, si possono incontrare partite candide ed altre gialle, queste ultime in alcuni casi persino amare al gusto. Alla frazione zuccherina si accompagnano infatti anche sostanze fenoliche del tutto simili a quelle presenti in un’altra pianta cardine della tradizione mediterranea e sua parente prossima in botanica, l’olivo, nella quale svolgono un ruolo deterrente contro insetti e mammiferi erbivori oltre ad agire come antisettici in caso di lesioni. Curiosamente ma non troppo, la manna contiene sostanze (oleuropeina, tirosolo) in quantità assolutamente analoghe a quelle rinvenute in un normale olio d’oliva extravergine ed è probabile, ma non ancora verificato, che queste sostanze possano contribuire all’azione diuretica ed ipoglicemizzante che la tradizione ascrive alla manna, oltre a svolgere azioni salutistiche simili a quelle ascritte alla componente fenolica dell’olio d’oliva nella dieta mediterranea. Questi composti, pur presenti in piccola quantità, possono incidere in modo consistente sia sul sapore che sul colore del prodotto. Il difetto di queste sostanze infatti è che durante l’essiccatura colorano di giallo l’essudato, facendo perdere il bianco che è un tratto di pregio e soprattutto, se presenti in eccesso, possono conferire un inconsueto sapore amaro, che ricorda appunto quello delle olive non trattate.

Questi aspetti rappresentano la croce e la delizia per chi cerca di valorizzare questo tipo di prodotti. Da un lato si ha la meraviglia di un prodotto ogni volta unico (bello pensare ad ogni singolo frassino come ad un artigiano, che produce pezzi unici e diversi a seconda del proprio sentire) ma dall’altro ogni volta si rischia di non sapere cosa si compra. Il gelataio che volesse produrre mantecati alla manna o il cuoco di NY con i suoi clienti sofisticati accetterebbero partite una volta dolci come il miele e l’altra amare come un’oliva acerba?