Su Elaeis guineensis, pianta da cui si estraggono gli oli di palma, c’è da tempo un bersaglio grosso così. La luce rossa lampeggiante non sta sulla povera specie -al solito senza colpe- quanto sulle sue piantagioni sempre più estese, sempre più aggressive, sempre più nemiche della biodiversità e sempre più a rischio greenwashing. Sull’olio di palma da anni viene combattuta una battaglia mediatica che vede in prima fila le più grosse associazioni ambientaliste, che hanno fatto del tema uno degli stendardi della loro azione, volta in primis a combattere la struttura e l’estensione della filiera. Dall’altra parte del campo, l’agroindustria (alimentare, cosmetica e delle risorse rinnovabili in senso lato) che letteralmente divora volumi ciclopici di olio di palma per destinarli ad una gran varietà di prodotti che tutti noi utilizziamo ogni giorno: saponi e detergenti, alimenti, biofuels, derivati chimici e lubrificanti. Indubbiamente il grafico che descrive i volumi di produzione di olio di palma e la loro esportazione presenta, negli ultimi decenni, delle pendenze da Mortirolo.
Gli istogrammi che illustrano la distribuzione planetaria e locale della produzione (dati FAO 2008) sembrano invece partoriti dalla mente verticale di qualche architetto di Dubai.
La produzione, come illustrano le immagini, è concentrata quasi esclusivamente in Indonesia ed in Malesia, tigri asiatiche che ospitano anche una buona quota delle foreste tropicali in quell’area del pianeta e la combinazione tra aumento della richiesta e crescita delle coltivazioni determinerà, secondo le previsioni, un’erosione proporzionale di aree forestali anche nelle zone meno popolate e più ricche in biodiversità, come Papua ed il Borneo.
La produzione è dunque localizzata, mentre il consumo degli oli di palma è invece assai più diffuso, sebbene in buona parte concentrato nei paesi più sviluppati. Il dibattito sull’olio di palma di solito verte quindi su due punti cardinali: la filiera lunga e la deforestazione. Per fare spazio alle piantagioni si abbattono ettari di foresta tropicale, si distruggono habitat e si depaupera la biodiversità. Per portare l’olio dall’Indonesia ai mercati di consumo/trasformazione in occidente si impiegano tonnellate di combustibili, accrescendo l’emissione di gas-serra. Questo scenario, giusto o sbagliato, implica in realtà l’esistenza di un mercato vivo e di una serie di esigenze: gli oli vegetali composti da acidi grassi a catena media come l’acido laurico, miristico e caprico hanno un mercato fiorente, come confermato anche dalle cifre e dai volumi di questo grafico FAO per il 2007. Insomma, ci servono per un sacco di cose e se proprio non vogliamo convincerci ad una serie di rinunce, occorre valutare alternative. L’industria li chiede a grandi quantità, grazie al loro basso prezzo li infila ovunque, ma al contempo i consumatori diventano sempre più scettici circa la loro sostenibilità ambientale e sono attenti ed interessati a soluzioni diverse.
Per capire se le alternative esistono, bisogna spendere qualche riga sui motivi del successo dell’olio di palma. In particolare, questo è dovuto alla sintesi tra due fattori, uno legato alla quantità ed uno alla qualità. Il primo è che Elaeis guineensis garantisce una resa per ettaro di gran lunga superiore a quasi tutte le piante oleaginose coltivate. Per avere la stessa quantità di olio di soia o di girasole occorrerebbe una superficie coltivata di dieci volte maggiore e come illustrato dal grafico qui a fianco la superficie delle pantagioni di palma è ben meno estesa di altre oleaginose. L’alternativa deve essere competitiva a questo riguardo. Il secondo motivo è derivato dalla composizione soprattutto di uno dei due oli prodotti da questa palma. Mentre l’olio ricavato dalla spremitura della polpa del frutto è composto da un mix di acidi grassi saturi ed insaturi e trova soprattutto uso nel settore alimentare, quello derivato dal nocciolo è estremamente ricco di acidi grassi saturi a catena di media lunghezza (12-16 atomi di carbonio), come l’aci
do miristico e laurico. La reologia dei trigliceridi così composti risulta perfetta per due impieghi: la produzione di saponi, detergenti, surfattanti e cosmetici e la produzione di derivati plastici, lubrificanti o combustibili. Per le loro caratteristiche strutturali questi acidi grassi ad esempio sono ideali per i saponi solidi e per la produzione di una lunga serie di derivati di semisintesi, per ottenere i quali un tempo si ricorreva a sottoprodotti della raffinazione del petrolio. Proprietà ed impieghi sono condivisi con un altro olio di origine tropicale, quello di cocco, che di conseguenza vive un trend di espansione assolutamente analogo.
Il riassunto quindi è: gli oli vegetali ricchi di acidi grassi saturi a catena corta ci servono in quantità, ma vengono da lontano e per produrli occorre usare terreno “biodiversamente ed ecologicamente pregiato”. Una possibile soluzione al problema potrebbe essere quella di accorciare le distanze tra gli estremi della filiera, utilizzando terreni già destinati all’uso agricolo, limitando gli spostamenti via nave e riducendo la pressione sulle aree forestali dei tropici. Magari, si può aggiungere, trovando nuova destinazione a terreni ora coltivati con scarso reddito a causa della concorrenza internazionale e tenuti in piedi con una politica basata su sussidi. Ma le palme del genere Elaeis non sono d’accordo e si rifiutano di crescere negli USA e non ne vogliono sapere neanche dell’Europa. Esistono alternative? Esistono piante coltivabili in zone temperate del pianeta, dove l’agricoltura estensiva ha già creato spazi e la meccanizzazione può assicurare prezzi ridotti?
Il genere Cuphea ed i suoi semi a riguardo possono dire qualcosa. Le sue specie crescono bene anche al freddo, nei climi continentali e presentano una notevole variabilità nei lipidi presenti nei loro semi. Sono anche facilmente ibridabili, cosa che non guasta affatto quando si tratta di selezionare linee più produttive o uniformi. Alcune specie Cuphea, come C. carthagenensis, C. stigulosa, C. viscosissima ed i suoi ibridi, presentano una composizione in trigliceridi assolutamente comparabile a quella dell’olio di palm kernel o dell’olio di cocco. L’ennesima tabella di questo post parla di abbondante laurico, miristico ed anche caprico e caprilico, ancora più appetibili per l’industria dei lubrificanti. Queste piante però sono studiate da poco, da quando l’interesse per il biodiesel ha fatto aumentare gli investimenti per la ricerca di questo tipo di oli. Perchè non compaiono ancora campi violetti nelle pianure d’Europa? Niente complotti ma semplici limiti nelle conoscenze e negli studi agronomici. Fino a pochi anni fa queste specie erano spontanee o al più coltivate a scopo ornamentale e poco è stato ancora fatto per adattarle alle esigenze della coltivazione intensiva. In particolare il processo di addomesticazione non ha ancora domato una caratteristica assai utile per le piante selvatiche, ma poco gradita dall’uomo: la fruttificazione scalare. Una grossa percentuale del raccolto va persa perchè le piante coltivate non sono ancora state selezionate abbastanza da fruttificare tutte assieme. Se la composizione è molto interessante, sulla resa ancora c’è da lavorare: si viaggia attorno ai 1200 kg per ettaro ma si prevede di raddoppiare a breve. La resa estrattiva dell’olio è del 30% circa, il che equivale a 0.3-0.4 tonnellate per ettaro, ancora lontano dall’efficienza produttiva di Elaeis guineensis.
Questo giustifica il fatto che la coltivazione di Cuphea su scala industriale sia ancora agli albori, ma non esclude che qualche pioniere provi a mettere in commercio piccoli lotti di olio di Cuphea e non mi stupirei di vedere presto saponi solidi a “km zero” fatti con questo derivato vegetale. Intanto, per eventuali pionieri, è disponibile un dettagliato studio agroeconomico, comprensivo di breakeven per una coltivazione meccanizzata in clima temperato-freddo.
Una gran bella analisi sull’olio di palma , ma sopratutto sulle indicazione delle alternative ci offre un canale alternativo su cui lavorare non è poco
Grazie Gunther. La prossima analisi approfondita ti toccherà da vicino: ricerca e marketing nel comparto dei soft drink a base di tè verde.
Complimenti per il tuo blog innanzitutto! Mi farebbe piacere fare uno scambio di link con il mio Psicologia e Salute (www.latuapsicologia.blogspot.com). Ciao
Francesco
Il tuo commento è in attesa di moderazione, grazie!
bellissimo post , vien voglia di seminarla , sai se in Italia c’e’ qualche esperimento in proposito e se e’ possibile reperire dei semi giusto per fare una prova ?
Che io sappia non sono state fatte prove in campo da noi, ma potrei sbagliare. Il genere comprende sia specie perenni/suffruticose che annuali/erbacee, i dati sugli oli si riferiscono in genere a queste ultime… ma per scopo ornamentale si trovano più facilmente le prime, più adatte ai climi caldi ed apprezzate per i fiori. Per recuperare i semi delle specie erbacee credo ci si debba rivolgere all’estero (USA-UK), dove -dicono- si sono avuti buoni risultati nella rotazione col mais.
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