La fitochimica olistica

Che finiscano sui banconi di un’erboristeria in prodotti confezionati, in fitoterapici o integratori alimentari, tra gli ingredienti di un functional food o qualora semplicemente restino nel solco della tradizione delle tisane, per tutte le droghe vegetali esiste una parola chiave: fitocomplesso. Già il termine ricorda qualcosa di ingarbugliato e difficile da districare e difatti sottende la croce e la delizia di chi si occupa di piante medicinali, della loro validazione e del loro controllo di qualità. Il fitocomplesso è un concetto che esprime la parte per il tutto, una specie di sineddoche fitochimica che include principi attivi, coadiuvanti, inerti e tutto quanto possa essere indiscriminatamente estratto da una matrice vegetale. Ovvero quella miscela di classi chimiche che a vario titolo contribuiscono all’espressione un’azione fisiologica o terapeutica, a seconda dei casi.

A causa della sua inafferrabilità da sempre il fitocomplesso è l’oggetto di contese e discussioni: per i fautori dell’erboristeria tradizionale esso non è riducibile ad uno o pochi elementi ma la sua azione è dovuta all’intervento sinergico di un gran numero di molecole tra loro differenti. Il concetto di sinergia, in cui l’azione complessiva è maggiore della somma dei singoli componenti presi individualmente, riassume bene il concetto. Sull’altra sponda del fiume stanno quanti hanno un approccio più materialistico e farmacologico alla questione, secondo i quali è necessario stabilire una correlazione tra uno o pochi principi attivi e l’espressione di un’azione biologica. Il tutto si riassume in un confronto tra i fautori del fitocomplesso-lupara, che colpisce ad ampio spettro ma con pallini piccoli e quelli del principio attivo-silver bullet, che agisce con forza su un bersaglio univoco e preciso, alla stregua di un normale farmaco di sintesi. Mesi addietro grazie ai commenti di Marco Valussi questa dicotomia era affiorata ed avevamo provato ad approfondire il tema.

Per tutti gli attori che recitano su un brogliaccio vegetale il fitocomplesso è infatti una brutta gatta da pelare: non sempre è chiaro quali sono i principi attivi davvero rilevanti l’efficacia e, soprattutto, questo benedetto fitocomplesso è una chimera elusiva e mutevole di partita in partita, di anno in anno, di coltivazione in coltivazione. Le conseguenze di un interlocutore così camaleontico e sfuggente ricadono su tutti gli aspetti di ricerca e sviluppo di un derivato vegetale: validazione, qualità, analisi, ottimizzazione dei processi estrattivi, miglioramento della coltivazione, ecc.

Al contempo tuttavia l’esistenza del fitocomplesso è in un certo senso il cardine dell’erboristeria, ne garantisce la distinzione dalla farmacoterapia e la difficile inclusione sic et simpliciter nella nutrizione, garantendo quindi al settore qualche scampolo di indipendenza ed unicità (nel bene e nel male). Al contempo obbliga le aziende a scegliere una linea precisa circa le droghe: titolare (ovvero specificare lotto per lotto la quantità di uno o più principi attivi), standardizzare (offrire garanzie di uniformità delle partite, senza necessariamente specificare quanti principi attivi sono presenti) oppure non effettuare nessuna delle due operazioni e limitarsi a garantire la certezza dell’origine botanica della droga. Messe tra l’incudine dell’industria farmaceutica ed il martello di quella alimentare le aziende che trattano estratti vegetali si trovano attualmente nella necessità di rimarcare questa unicità ed usarla come vessillo per la loro autonomia di competenze e cultura. Fornire una titolazione “secca”, ovvero quantificare unicamente un composto guida nell’estratto vegetale (l’ipericina in Hypericum perforatum, ad esempio) è una classica indicazione farmaceutica e non è più sufficiente per sfuggire dall’orizzonte degli eventi di big pharma. Al tempo stesso una semplice indicazione dell’origine botanica della droga garantisce l’accesso a mercati troppo di nicchia e preclude forme di controllo e di garanzia ormai indispensabili per accedere a mercati sufficientemente ampi.

Prendiamo un esempio che si colloca esattamente in questo contesto duplice, tra farmaco ed alimento: il tè verde. Esprimerne la qualità in termini salutistici non è semplice: è sufficiente indicare la quantità di catechine? E tra tutte, quali sono più rilevanti per l’azione? Ed i flavonoidi? Ed i derivati cinnamici come l’acido clorogenico? Ed i vari aminoacidi, tra cui uno, la teanina, esclusivo di Camellia sinensis e considerato responsabile di diverse attività a carico del sistema nervoso? Sino ad ora l’unica maniera era quella di analizzare le sostanze una ad una, un’operazione improponibile per costi, tempi e variabili coinvolte, sia per i ricercatori che per le aziende. Ora la disponiilità di apparecchi di risonanza magnetica nucleare (NMR) abbastanza potenti e l’applicazione della metabolomica declinata in chiave fitochimica possono metterci una pezza. Non subito, ma in prospettiva a medio-breve termine molto probabilmente.

Proprio applicando queste tecniche al tè verde, un articolo recente (scarica il pdf) illustra a mio avviso molto bene le potenzialità dell’NMR fingerprinting. Ad esempio, tralasciando la parte statistica e gli inevitabili tecnicismi e limitandosi all’osservazione della figura ingrandibile a lato è possibile riconoscere ed individuare in un colpo solo e su un singolo campione la presenza di aminoacidi, zuccheri, alcaloidi, polifenoli e di confrontarne l’abbondanza relativa tra un batch di poduzione e l’altro, ad esempio.

La stessa operazione può essere svolta per monitorare in toto le procedure di estrazione, scegliendo il protocollo estrattivo che aumenta la presenza di componenti desiderati o limita quella di eventuali composti sgraditi,ottimizzando il metodo estrattivo sulla totalità del fitocomplesso e non su una singola molecola o su una singola classe chimica. Analogamente, il metodo può essere applicato anche alla selezione del miglior fornitore o della varietà di droga che si considera di migliore qualità dal punto di vista del fitcomplesso totale e non solo facendo riferimento ad un singolo parametro.

Volendo utilizzare un termine quasi impronunciabile, quella fornita da questo impiego dell’NMR è una descrizione chimica “olistica”, nel senso che permette di descrivere il fitocomplesso nella sua completezza e non solo in maniera parziale come avviene con una quantificazione classica per via cromatografica. Al tempo stesso però può anche evolversi in un dato più caro a medici e farmacologi. Esiste difatti anche un’ulteriore upgrade che può essere implementato per tradurre il dato “qualitativo” in un dato “quantitativo”, giungendo per il tè verde a quantificare simultaneamente teanina, catechine, xantine e derivati cinnamici in modo simile (seppure leggermente meno sensibile) ad una normale analisi cromatografica.

La fregatura dove sta? Lo strumento necessario costa attualmente diverse centinaia di migliaia di euro.

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1H NMR Based Metabolic Profiling in the Evaluation of Japanese Green Tea Quality
LUCKSANAPORN TARACHIWIN, KOICHI UTE, AKIO KOBAYASHI, EIICHIRO FUKUSAKI

J. Agric. Food Chem. 2007, 55, 9330–9336
(Scarica il pdf)

Classification of tea quality is now mainly performed according to the sensory results by professional tea tasters. However, this evaluation method is inconsistent in differentiating their qualities. A combination of a 1H NMR technique and a multivariate analysis was introduced to the quality evaluation of green tea by means of a metabolomic technique. A broad range of metabolites were detected by 1H NMR spectrometry. The principal component analysis (PCA) was used to reduce the complexity of the 1H NMR spectra data set and provided the quality discrimination result. It offered an extensive clue for classification and quality assessment without any prepurification method. A set of green teas from a Japanese tea contest were analyzed by 1H NMR to classify the quality with respect to that judged by tea tasters and to conceive a quality prediction model. Metabolic profiling and fingerprinting of 1H NMR spectra of green teas with different quality were studied. PCA showed a separation between the high- and the low-quality green teas. The taste marker compounds contributing to the discrimination of tea quality were identified. Reliable prediction models were obtained by the partial least-squares projection to latent structure (PLS) analysis together with a preprocessing filter of both orthogonal signal correction (OSC) and a combination between OSC and wavelet transform algorithms.