Prima di iniziare a smontare il primo giocattolo secondo il nostro piano di reverse engineering, occorre sapere cosa stiamo smontando. Serve sapere cosa cercare, come e perchè. Un ottimo punto di partenza ce lo offre il sito di Aboca, con la sua schematica descrizione di cosa deve essere riportato in etichetta in un prodotto erboristico.
Qualche rapida chiosa ad alcune delle voci presenti nel link: l’indicazione di un lotto di produzione e la possibilità di tracciare il prodotto non è una pedanteria o un inutile codice industriale, ma uno strumento fondamentale per l’erborista e per l’azienda in caso di reazioni avverse, effetti collaterali indesiderati o altri problemi riscontrati dal consumatore. Esso permette di risalire ad eventuali procedure anomale, capire se alcuni ingredienti del prodotto erano fuori norma ed agire di conseguenza. In assenza di questo processo non solo non è possibile scoprire la causa del problema, ma neppure evitare che essa si ripeta a carico di altri. In poche parole, la presenza di un lotto di produzione è una indicazione di serietà del produttore ed una garanzia per l’erborista.
La definizione di un titolo per le droghe presenti nel prodotto è fondamentale per i dosaggi. Non tutti i metodi di quantificazione però sono equivalenti e ne esistono di più o meno precisi. Sarebbe buona norma che il produttore indicasse accanto al titolo la metodica utilizzata, per dare all’erborista o al medico una chiave di interpretazione del dato.
L’espressione del titolo è fondamentale per ricostruire a dovere l’equilibrio (talvolta da personalizzare, tra dose/effetto e dose/effetti collaterali). Purtroppo in questo ambito regna una certa anarchia, dato che la quantità di principio attivo non sempre è espressa in maniera chiara. In alcuni casi è correttamente indicata la quantità di principio attivo per compressa, per capsula o per volume di estratto se il prodotto è liquido. In molti altri casi è espressa in percentuale sulla droga utilizzata come ingrediente e sono necessari calcoli precisi per risalire alle quantità assunte (posto che siano forniti anche altri dati, il che non sempre avviene). L’importanza di queste informazioni è molteplice: il consumatore ha una indicazione di qualità delle materie prime, mentre erborista e medico hanno dati sui quali regolarsi per modulare i dosaggi o per comprendere eventuali effetti tossici o imprevisti.
Infine, gli ingredienti. Come avviene per l’INCI, non è obbligatorio indicare le quantità dei singoli ingredienti, anche per motivi di segretezza industriale. Operazione comprensibile dal punto di vista dell’azienda, meno per quello del consumatore e di chi media tra consumatore e produttore ovvero il medico (fitoterapeuta o meno) e l’erborista. Alcune marche indicano le percentuali delle diverse droghe, altre no. Questo ovviamente complica i calcoli di cui poc’anzi.
Molte di queste informazioni non sono obbligatorie ma la loro presenza è sempre da considerare positivamente. Lo stesso vale per la presenza di un foglietto illustrativo completo fornito quantomeno all’erborista con la descrizione di effetti collaterali, reazioni allergiche, ipersensibilità, consigli sulle associazioni alimentari o terapeutiche da evitare, presenza o assenza di ingredienti sconsigliati a chi soffre di celiachia, diabete ed altre patologie croniche, eccetera.
Vorrei sottolineare come il dato “titolazione” si presti, purtroppo, ad utilizzi meno nobili di quelli di informare sulla qualità e concentrazione del prodotto. Ovvero, esso può essere usato come specchietto delle allodole per ingannare il consumatore e nel fargli credere che un prodotto, per il solo fatto di avere in etichetta un dato percentuale su una molecola, sia migliore di altri. Perché la titolazione sia indice di qualità intesa nel senso di efficacia essa deve fare riferimento ad una molecola che sia responsabile primaria dell’attività del prodotto. Orbene, questo è vero per poche piante (quelle per le quali esiste una documentazione clinica dell’efficacia legata ad un prodotto standardizzato, come Ginkgo), e comunque esistono molte piante per le quali non è per nulla chiaro quali siano le molecole più importanti. Allora, quando un produttore scrive Echinacea standardizzata al 4% di echinacoside, induce (consapevolmente o meno) il consumatore a pensare che questo titolo sia una assicurazione dell’efficacia del preparato. Ma dato che l’echinacoside è solo un marcatore di identità, ci dice solo che NON stiamo acquistando E. purpurea.
L’altro problema dell’utilizzare i concetti di titolazione e standardizzazione in maniera semplicistica, è che deflettono le responsabilità nel definire meglio e in maniera più stringente la qualità del prodotto. Il consumatore può cioè essere spinto a pensare che la titolazione o la standardizzazione equivalgano ad un bollino di qualità, mentre in questo campo l’unico vero bollino di qualità certo è dato dalla definizione di materiale di partenza di alta qualità, da un processo produttivo che mantenga questa qualità, e dalla scelta di una forma galenica che bene si accordi con il materiale e con l’utilizzo finale. Se poi a questo aggiungiamo una titolazione ragionata, perfetto, ma la sostituzione non vale 🙂
Assolutamente corretto. Non ho vluto dilungarmi eccessivamente sul concetto, ma il tuo commento è un perfetto compendio. Diciamo che è la titolazione è una condizione necessaria ma non sufficiente a definire la qualità complessiva di un prodotto. Al tempo stesso è un’informazione la cui assenza limita la possibilità di ragionare sul prodotto stesso, di capirne la logica e la cura con cui è stato costruito. L’esempio dell’Echinacea è classico a riguardo (ne ho accennato giusto pochi minuti fa su un forum dedicato alla fitocosmesi 🙂 ) ed è reso ulteriormente critico da tutti quei casi in cui l’azione è effettivamente multifattoriale, data dalla sinergia di più componenti. L’esempio dell’Iperico è un altro classico: si è partiti dalla titolazione della sola ipericina, sino a suggerire una tripla standardizzazione (ipericine + iperforine + flavoni)…*
Personalmente ritengo che il problema non sia nelle informazioni (piu’ ce ne sono e piu’ il consumatore consapevole ha modo di farsi un’opinione e scegliere non passivamente) ma nel modo in cui sono presentate. In questo senso saper leggere l’etichetta in tutte le sue sfumature è fondamentale, soprattutto da parte di chi deve consigliare il consumatore. Converrai con me che conoscere a priori quale principio attivo è responsabile dell’azione ascritta al prodotto permette di verificare se la titolazione è “cosmetica”, “marchettara” o un effettivo plus del prodotto.
Che poi non siano sufficienti a capire tutto, non ci piove: l’interpretazione semplicistica, l’eccesso di delega, la banalizzazione del concetto sono nemici della comprensione a qualsiasi livello dell’esistenza umana. La riduzione della qualità di un prodotto ad un singolo parametro è un’operazione limitante, rischiosa, ma uno dei difetti della nostra società, che ha la pessima abitudine di esigere dati puntuali estrapolandoli da un contesto per cercare di spiegare il senso del contesto stesso.
Questa discussione conferma a miom avviso due cose dette sin dall’inizio: la materia ha radici antiche ma molti rami giovani che ancora devono essere definiti ed esplorati e (conseguentemente), tutti gli attori in scena devono studiare ed informarsi sempre. Chi si ferma è perduto 😉
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*Busse, W. 2000. The significance of quality for efficacy and safety of herbal medicinal. products. Drug Information Journal 34:15-23.
Concordo, è la modalità di presentazione il punto critico. Certamente il titolo è una informazione fondamentale (proprio qualche mese fa commentavo uno studio non pubblicato sui supplementi di echinacea, che rivelava purtroppo in molto casi la quasi assenza della pianta!), sarebbe bello recuperare la dimensione più allargata
[…] alla stregua di un normale farmaco di sintesi. Mesi addietro grazie ai commenti di Marco Valussi questa dicotomia era affiorata ed avevamo provato ad approfondire il […]